Grazie a questa fervida attività, già ai primi del Seicento l’Italia riesce a dotarsi di uno strumento che, fondandosi sull’uso scritto fiorentino del Trecento, servisse da guida per gli scriventi di tutt’Italia, in una fase storica in cui si discuteva molto di quale potesse essere la lingua in grado di unificare tradizioni linguistiche variegate e difformi, diffuse nel territorio nazionale. L’unità linguistica prima dell’unità politica, raggiunta secoli dopo. Il Trecento fiorentino significa in primo luogo Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma anche autori minori, nati in Toscana in quel secolo, giudicati degni di stare al fianco dei maggiori: i valori linguistici intrinseci alla loro nascita erano prevalenti rispetto a eventuali insufficienze qualitative. Quel vocabolario guardava all’indietro per regolare il presente: usava il setaccio (il frullone, appunto) per separare la purezza antica della farina linguistica dalla crusca.
La prima edizione del celebre «Vocabolario degli Accademici della Crusca», stampata a Venezia nel 1612, si può ammirare in una splendida edizione anastatica del 2008, corredata di una monografia affidata a diversi specialisti (Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia; Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia; altri che non riesco a citare per ragioni di spazio) e di un CD-Rom che ne consente la consultazione a tutto campo, per ricerche di vario tipo. L’impostazione del Vocabolario aveva un’impronta marcatamente letteraria: accoglieva parole presenti nei testi antichi, segnatamente le parole presenti negli scritti dei grandi autori del Trecento toscano, Dante, Petrarca e Boccaccio, le cosiddette “Tre corone” della nostra letteratura. L’opera ebbe grande successo: vide una seconda edizione nel 1623 e altre successive, via via accresciute, negli anni 1691, 1729-1738, 1863-1923 (tutte al sito www.accademiadellacrusca.it > scaffali digitali).
L’Accademia acquistò grande fama in Europa e sul suo modello sorsero altre importanti Accademie, alcune delle quali pubblicarono i vocabolari delle rispettive lingue, guardando a quello che la Crusca aveva fatto per l’italiano, realizzando un vocabolario moderno esemplare anche per altre lingue. Quel prototipo fu adottato e imitato dai vocabolari che in tempi successivi nacquero in Francia, Spagna, Inghilterra, Germania. In Francia nel 1635 il cardinale Richelieu fondò l’«Académie Française» (il cui «Dictionnaire» apparve in prima edizione nel 1694). In Spagna nel 1714 sorse la «Real Academia Española (il cui «Diccionario» si pubblicò negli anni 1726-1739). Nel 1755 apparve il «Dictionary of the English Language» di Samuel Johnson, che era in rapporti con la Crusca. In Germania il principe Ludwig von Anhalt, Accademico della Crusca dal 1600, fondò nel 1617 a Weimar la «Fruchtbringende Gesellschaft» (‘Societa fruttifera’), che aveva simboli e programmi simili a quelli della Crusca. Ma lì passarono oltre due secoli prima che i fratelli Grimm (sì, proprio quelli delle notissime favole per l’infanzia), dando alla luce il «Deutsches Wörterbuch» (primo volume edito nel 1854), citassero ed elogiassero come grande esempio il «Vocabolario della Crusca»
Il Vocabolario degli Accademici della Crusca fu per secoli uno strumento eccellente, fondamentale per gli scriventi italiani che in esso potevano trovare una bussola per orientarsi tra oscillazioni, incertezze e dubbi. Ma via via cambiavano le condizioni storiche e quello che andava bene tra fine Cinquecento e inizi Seicento non poteva più servire per le esigenze della società del Novecento. L’ultima edizione, iniziata nel 1863 e proseguita (senza grande lena) fino al 1923, fu interrotta dopo la lettera O: i tempi erano cambiati, le condizioni sociali e culturali erano diversissime rispetto agli inizi, non aveva più senso un vocabolario fondato prevalentemente sull’imitazione del passato.
I vocabolari odierni poggiano su una diversa impostazione metodologica, non hanno aspirazioni puristiche, accolgono neologismi, forestierismi, dialettalismi, termini scientifici, sono aperti alle innovazioni della lingua d’uso medio: si registra l’esistente, dominato da ampie oscillazioni. Una bussola per l’oggi che rappresenta l’eredità di un passato culturale splendido, che ci fa esser fieri della nostra storia. Possiamo esserne orgogliosi, scriviamolo senza arrossire.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 10 maggio 2024]