I suoi insegnanti locali lo veneravano. Lo accompagnava fama di fine e colto conferenziere. Mi ricordo una sua conferenza a Gallipoli sulle sommosse popolari per il caro pane.
Era discreto, quasi ieratico, accettò l’invito del sindaco e dei suoi “maestri” a far parte del Comitato con iniziale riluttanza. Poi scrisse la presentazione di un libretto divulgativo, non senza il mugugno di Luigi Ponzi, autorità culturale locale, con cui c’era una certa rivalità essendo entrambi collaboratori della “Zagaglia” ed ispettori onorari ai monumenti.
Ovunque andasse de Bernart puntava alla valorizzazione dei beni culturali del luogo, sia materiali che immateriali. Così a Taurisano molto fece anche per la Chiesa e il culto della Madonna della Strada, anche quando si era già trasferito o tornato alla scuola elementare di Ruffano. Forse per Taurisano c’era in lui un pizzico di interesse particolare per la parentela con la famiglia locale dei Castriota Scanderbeg.
De Bernart stette a Taurisano, fra direzione e reggenza, una decina d’anni, dal 1966 al 1976. Una tranche de vie. Abbastanza per far partecipare alla sua commemorazione qualche superstite voce stefanina. Non la mia, colpevolmente, ché nove volte su dieci dico no agli inviti. Aggiungere Taurisano per l’amicizia a Parabita per la nascita, a Gallipoli per il vissuto e a Ruffano per la residenza, avrebbe solo compiuto uno stemma araldico con quattro quarti di nobiltà civile. Sarebbe stato più giusto e più vero; e sicuramente de Bernart ne sarebbe rimasto contento.
Io De Bernart l’ho frequentato fino all’ultimo. Mi telefonava per dirmi che era pronta la nuova plaquette di memorabilia. Mi riceveva perfino stando a letto, con un po’ di disagio mio. A volte si trovava il dottore Stefanò, suo medico curante ed amico.
Di lui mi colpivano la sobrietà del racconto e la brevitas della scrittura. Non so che pensasse di me, così diverso da lui, per cultura, temperamento ed educazione. Gli facevo avere regolarmente “Presenza Taurisanese” e credo di avergli pubblicato qualcosa sul “Brogliaccio”. Posso dire che mi voleva bene. Se pure mi stimasse non so. Una volta ci incontrammo, non ricordo più dove e in quale evento. Io mi giravo tra le mani il libro di Mario Serenellini I diseducatori. Intellettuali d’Italia da Gramsci a Pasolini del 1985, appena comprato. Lui mi guardò e, celiando, mi chiese se io ne ero compreso. Direttore – gli risposi – questi sono i veri educatori ed io non ambisco davvero a tanto. Accennò un sorriso, che a me parve più enigmatico di quello della Monna Lisa. Non mi dispiacque.