Luigi Marti poeta

Nato a Ruffano nel 1855[6], Luigi trascorse gli anni della fanciullezza a Ruffano per poi trasferirsi a Maglie, dove compì gli studi ginnasiali, e, in seguito, a Lecce in qualità di ‘prefetto di camerata’[7] presso il Liceo Palmieri; qui conseguì, per titoli ed esami, il titolo di Dottore in Lettere, continuando ad evidenziare una spiccata predilezione per «le arti visive, in particolare per il disegno»[8]. Esercitò l’insegnamento e verso la fine degli anni Ottanta si trasferì a Pallanza, piccola frazione del Comune di Verbania, dove visse per un decennio prima di spostarsi a Salerno. Nella città campana, all’età di 56 anni, morì «quasi improvvisamente nell’aprile del 1911, senza aver conseguito la meritata rinomanza»[9]

Nel 1880 venne pubblicata per i tipi dello Stabilimento tipografico Scipione Ammirato di Lecce la prima raccolta poetica di Luigi Marti, Un eco dal villaggio[10], dedicata alla memoria del fratello Giuseppe, «morto giovanissimo, vissuto abbastanza per conoscere e patire», strutturata in due parti: alla prima che comprende nove liriche[11], segue un’Appendice di tre componimenti[12].

Più che un poemetto unitario, la raccolta appare una sorta di deflagrante esplosione di insopprimibili istanze di insofferenza interiore nei riguardi di storture patite personalmente e/o  rivenienti da situazioni reali che spesso caratterizzano «quei mali sociali (la miseria, la prostituzione, il cinismo) che, generandosi l’uno dall’altro, affliggono e corrompono la salute comune»[13]. Sicché, nelle nove poesie della prima parte, di varia lunghezza, il cui metro prediletto è la quartina di endecasillabi variamente rimati, vengono affrontati diversi temi (le raccomandazioni, gli obblighi contratti con i potenti di turno, le obbligazioni con gli usurai, la giustizia ingiusta, la prostituzione, fisica e intellettuale, e altri), il più delle volte con toni che spesso sfociano in meditazioni amare, deluse, non di rado rabbiose contro coloro che tali ‘mali’ causano a proprio esclusivo vantaggio; altre volte, invece, trovano spazio considerazioni meno risentite, più calme.

Sia che si tratti di spinte emotivamente violente, sia che prevalgano riflessioni meno irruenti e più pacate, la raccolta appare costruita a mo’ di singole e sintetiche sequenze di sprazzi esistenziali, talvolta con evidenti richiami autobiografici, il cui collante è rappresentato, a mio avviso, dal deflagrante animus pugnandi e non di rado polemico che permea queste nove liriche e le tre poste in Appendice e che rappresenterà una costante anche nelle successive raccolte del Marti, il quale, peraltro, chiarisce perentoriamente le linee essenziali della propria poetica già nella breve Premessa rivolta A chi legge:

Questi versi, che vengono da impressioni genuine e reali, vorranno dire che anche nel villaggio si sente l’ulcera di quei mali sociali (la miseria, la prostituzione, il cinismo) che, generandosi l’uno dall’altro, oggi affliggono e corrompono la salute comune.

[…] Questi versi parmi siano usciti salvi dalla lebbra dell’imitazione servile e della finzione meccanica. […] La finzione e l’imitazione sono per me non indizi ma pruove della vacuità della materia, dell’indifferenza dell’artista, della dissoluzione dell’arte[14].

Concetti ribaditi subito e con forza nelle quartine di settenari della proemiale anacreontica Alla poesia:

Se figlio del mio secolo

a la mia carne servo,

spenta ho la fé, protervo

                               e vïolento il cor;                  (vv. 1-4)

[…]

Dentro il mio petto gl’impeti

più generosi io cerco,

non son bugie che merco,

                             non son false virtù.                (vv. 9-12)

            Questa avvertita dichiarazione d’intenti, costantemente volta alla ricerca degli ideali più elevati per il perseguimento delle virtù più nobili, si invera nella scrittura sostenuta delle liriche della raccolta, con l’obiettivo di porre in risalto i disagi dei più deboli, le sopraffazioni dei prepotenti e, più in generale, le storture della società, sottolineando, non di rado con forti toni di protesta civile, sociale e politica, l’indifferenza colpevole degli apparati statuali nei riguardi delle drammatiche condizioni delle classi meno abbienti. Tutte tematiche che, in qualche misura, è possibile ricondurre a quello che recentemente L. Giannone ha indicato come «un filone di protesta civile e sociale in versi che si sviluppa in Italia a partire soprattutto dall’Unità»[15] e che annovera alcuni noti poeti: il «Carducci di Giambi ed Epodi, Felice Cavallotti, Lorenzo Stecchetti, Mario Rapisardi, Pompeo Bettini, Carlo Dossi e una poetessa insospettabile sotto questo aspetto come Ada Negri», ovviamente «con le dovute differenze che esistono tra di loro»[16].

Si legga, ad esempio, il drammatico racconto dell’incidente sul lavoro narrato nelle quartine della lirica significativamente intitolata con un termine d’ambito locale, Il zoccatore («Il cavapietre»). Sia ben chiaro: non vi è l’intenzione di ricondurre il faticoso mestiere del cavapietre o cavamonti a un ambito ristretto, localistico; infatti, il ‘realismo lessicale’ di pochi termini («pietra», «ferreo», «colpo mortale») risulta completamente soverchiato da un linguaggio di sicura ascendenza letteraria e dal diffuso utilizzo di figure retoriche (anastrofe, enjambements, allitterazioni), funzionali alla dettagliata rappresentazione di ogni singolo momento. Già all’inizio l’autore colloca in esergo i versi 4-5 del XXXIII dell’Inferno[17]; poi, all’interno della narrazione della tragica morte dei due figli, minuziosamente rievocata dal padre, emergono evidenti echi danteschi:ad esempio, l’utilizzo dell’ipocoristico Andreuccio, nome di uno dei figli, seguito dal possessivo ‘mio’, che ricorda ‘Anselmuccio mio’, figlio di Ugolino e, soprattutto, la straordinaria concretezza, resa con abbondanza di elementi visivi carichi di indelebili pulsioni emotive, trasmesse con sapiente senso ritmico per instaurare un crescendo quasi concitato di pathos, strazio, disperata e inconsolabile angoscia finale:

E la pietra salìa. Tuono di gridi

muggì nell’alto; il cor vi corse pria,

                                         poi l’occhio, e corpi mulinare vidi                         (vv. 90-92)          

[…]

Colpo mortale mi calò repente,

né vidi e intesi più – ferreo sopore

gravommi i sensi e affaticò la mente

sogno che pinse quanto avvenne fuore.

Tornò negli occhi alfin l’aria lucente,

tornò la vita, oh non mi fosse mai!

D’intorno a me cadavere vivente

                                                  i figli miei cadaveri trovai…                                (vv. 94-101)

[…]

Solo Andreuccio mio pareami accenti

volesse dir; pietà dal cuore mio

cercar con occhi non ancora spenti;

di sua madre lontano aver desìo!

Oh fossi morto allor!…giammai rivolti

non ebbi gli occhi dalla terra rea

finché potei veder quei cari volti

                                           che mai nel mondo più veder dovea…!                     (vv. 110-117)

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            Negli anni successivi, Luigi Marti scrisse e pubblicò articoli e saggi, spesso ricavati da conferenze da lui tenute, collaborò assiduamente a testate giornalistiche, specie a quelle dirette dal fratello Pietro, in particolare «La Democrazia», e, tuttavia, continuò a privilegiare la produzione in versi.

            Molte delle poesie pubblicate in varie occasioni e in tempi diversi su giornali e riviste confluirono poi nella raccolta Liriche, divisa in tre parti e uscita nel 1889 per i tipi della Tipografia Garibaldi di Lecce[18], con finalità subito ben esplicitate già nell’emistichio virgiliano paulo maiora canamus[19](«cantiamo, celebriamo cose un poco più nobili») collocato in esergo. L’autore, cioè, si orienta decisamente verso componimenti di alto contenuto civile-morale, d’impianto polimetrico, che certamente rinviano, in particolare per scelte stilistiche, soprattutto al Carducci delle Barbare (accanto alla lassa tetrastica, figurano saffiche minori ad esempio nella lirica A Victor Hugo o saffiche maggiori come nel Monumento a Caprera) e di Giambi ed epodi.

            La prima parte è composta da 9 Odi (strofe libere): 1. A Umberto I di Savoia nel colera del 1884; 2. A Victor Hugo nel giorno della sua morte; 3. Monumento a Caprera. Visione; 4. Cristo e Bruno; 5. Per i caduti in Africa. A G. Carducci (dal Colosseo); 6. Le esplorazioni in Africa; 7. In alto! (per un’ascensione alpina); 8. Al Duilio (dalla marina di Castro); 9. L’ossario dei Martiri d’Otranto (Frammento).

Rispetto agli stizziti, aspri ‘echi’ della prima raccolta, qui si fa più evidente l’insistito recupero della classicità e della tradizione, talvolta in marcata contrapposizione con quella che al Marti appare la mediocrità contemporanea, talaltra quasi per conferire maggiore credibilità, con il ricorso a una nobile tradizione, alla personale e convinta adesione alla causa monarchica, non di rado esaltata con toni di enfatica celebrazione. Si legga, a mo’ d’esempio, la lunga ode che apre la raccolta. Dedicata a Umberto I di Savoia nel colera del 1884, la lirica, che consta di 14 lasse tetrastiche di endecasillabi e settenari alternati, irrelati e tutti sdruccioli, trabocca di ammirazione incondizionata per il re. L’autore, con il ricorso ad uno stile certamente ‘alto’, che si avvale sul piano sintattico di periodi molto lunghi distribuiti su più strofe con frequenti anastrofi e sul piano lessicale di latinismi, traspone addirittura in ambito divino la figura del sovrano, «di pietà novello arcangelo / […] / bello, raggiante di paterne lagrime / e di sovrano ausilio»:

Là dove l’esecrata orma venefica

del mal tutto contamina

ed un inferno di deliri suscita

e di lezzo e di spasimi;

dove di Morte l’atra ale protendesi

maligna in ogni lurido

umano covo ed ecatombi semina

di sformati cadaveri;

dove Amicizia e Amor quasi paventano

tentar l’entrata a piangere

il fato dei congiunti e il tetto patrio,

fattosi tomba, fuggono,

entrar te miran confidente e placido,

dal pio riso dell’anima

e dalla man versando opre magnanime,

                                              di carità miracolo.                                  (vv. 33-48)

            Non meno deciso appare il sostegno del Marti alla politica coloniale del governo Crispi, espresso in poesie di tema storico-politico, di forte impronta classicistica e con un linguaggio aulico, per certi versi quasi staccato dall’attualità anche quando la realtà contemporanea è fortemente presente a livello tematico. Si colloca in siffatta prospettiva il riferimento al Carducci, al quale viene significativamente dedicata l’ode Per i caduti in Africa, con l’accorata esortazione a «non tacer», per risvegliare una «scintilla animatrice di virtù novella» che possa scuotere «questa Italia immemore e languente»:

Pace a voi, pace a voi, candidi morti,

del pio lavacro di versato sangue:

doloroso battesmo, ultimo almeno,

a questa Italia immemore e languente!

Ah no, dell’Alighieri austero alunno,

Enotrio, non tacer; giudizio scenda

giusto sul capo agli uomini potenti,

                                        ma lauri ed inni sui recenti avelli.                       (vv. 17-24)

            Il Marti sembra avvertire prepotentemente la funzione civile e sociale della letteratura e perciò auspica che la «dotta cetra» eterni il «bello di gloria e di martirio / santo manipolo d’eroi» caduti nella campagna d’Africa. Intrecciando sapientemente evento coevo e consolidato repertorio classico, lo scrittore di Ruffano intende eternare il loro sacrificio e renderlo ‘santa memoria’ attraverso una poesia che susciti nei ‘giovani ardenti alti sensi’; evidenti, e forse fin troppo scoperti, i riferimenti al Carducci e taluni echi foscoliani:

Renda, renda un gran suon la dotta cetra

che plachi i morti e nove alme speranze,

nove vittorie, sacre a libertade,

sacre a giustizia, in cor d’Italia accenda.

A noi, giovini ardenti, a noi cui nulla

tetra ambizion né perfid’odio tenta,

santa memoria e scola ad alti sensi

                                     son le sventure e i liberali carmi.                      (vv. 33-40)

Spesso, però, la troppo insistita ricerca di soluzioni metrico-linguistiche eccessivamente ridondanti si tramuta in scelte paludate che appesantiscono i versi, generalmente poco fluidi, ancorché in alcuni casi riscattati da una partecipata tensione verso temi di carattere civile e politico: l’aspirazione alla fratellanza, la pace fra i popoli, la giustizia sociale, il lavoro.

È il caso, per fare un solo esempio, delle saffiche che chiudono la lirica In alto! (per un’ascensione alpina):

Un altro puro essi ideal sospirano

che non è quello cinto dal funereo

baglior delle armi, un ideal che assiduo

ci trae benefico

verso l’umana fratellanza libera

delle nazioni, verso la giustizia,

la gloria lavoro, la pia gioia

                                                     della famiglia.                                       (vv. 89-96)

Tuttavia, siffatta avvertita aspirazione ad alti ideali, nella prima parte della raccolta fin qui esaminata espressa ˗ come già detto ˗ con una scrittura incistata per forme troppo paludate, trova un almeno parziale riscatto nella seconda parte con il ricorso alla struttura metrica più antica e diffusa nel panorama letterario nazionale, il sonetto, mirabilmente riportato in auge nel corso dell’Ottocento da scrittori come Foscolo e Carducci, indubbiamente autori di riferimento per il Marti, e, soprattutto, con una più marcate istanze di carattere pedagogico-didattico, che, nel caso specifico, si inverano nella riproposizione di valori e ideali esemplarmente ravvisabili in taluni grandi personaggi.

Sono nove sonetti tra i quali, a parte gli ultimi tre dedicati il primo, intitolato Sulla bara di una bambina,a una bambina precocemente scomparsa, con evidenti echi leopardiani («Dovunque voli, a te si chiuse almeno / col sol nascente il viaggio della vita / e pria che il nembo oscuri il bel sereno / che allegra il cielo dell’età fiorita» (vv. 5-8))  e gli altri due, intitolati rispettivamente Ad una donna gentile e Alla stessa, che delineano figure femminili con largo uso di immagini letterarie consuete, spicca la corona di sei sonetti, in qualche misura riconducibili al filone eroico plutarchiano di gusto tardo settecentesco, composti per celebrare ed eternare personaggi esemplari della storia nazionale, in particolare personaggi e ideali risorgimentali e/o significativi eventi ‘eroici’: Giuseppe Garibaldi[20],  Giovanni Prati[21], Giuseppe Libertini[22], il Galateo[23], Liborio Romano[24] e Giuseppe Pisanelli[25] e, soprattutto, Giulio Cesare Vanini[26], al quale sono riservati due sonetti.

Si apre con il sonetto intitolato Garibaldi sulla tomba di Ugo Foscolo (Inghilterra), ripreso dalla prima raccolta[27], nel quale, al diffuso tema della ‘illacrimata sepoltura’ («Tra le tante che fuor del natio loco / s’aprono illagrimate itale fosse / avevi, ardenti ancor di patrio foco, / Ugo infelice, in strania terra le osse»), si abbina quello della coraggiosa e dolente solidarietà del «maggior dei nostri eroi», che ha avuto il merito di riscattare tale nefandezza riportando le spoglie mortali del poeta nel luogo più consono:

[…]

Quando il maggior dei nostri eroi sul poco

suol che t’accolse lento il piede mosse

e vi si assise e pianse ˗ Ira, dolore

era quel pianto: umil tributo e santo,

che a te versava chi ebbe pari e core

e patria e esilio e povertate e canto:

pianto che scosse dell’oblio l’amore

                                     e ti condusse al tuo Vittorio accanto.                     (vv. 7-14)

            Anche nel sonetto dedicato a Giuseppe Libertini, «in occasione della sua commemorazione civile», emerge un’invettiva nei riguardi delle ‘menzogne infami’, della ‘miseria’, della ‘viltade’ del ‘suol natio’, resa con una citazione dantesca:

Per i danteschi Elisi a noi talenta

vagar coi grandi, tra le selve amene,

dove viltade mai venir s’attenta.

Né sasso o nome liberal conviene

a questi tempi, ove «un Marcel diventa

                                           ogni villan che parteggiando viene»[28].                      (vv. 125-126)

            Poi, dopo il sonetto Per la morte di Giovanni Prati, seguono i due dedicati a Giulio Cesare Vanini, con i quali il Marti esalta ‘l’ideal del forte’ e ne proietta la portata del pensiero («Rabido foco che il tuo corpo sciolse / giovane, non la eroica alma scioglieva, / che il secol novo, vendicando, accolse»), ripercorrendo il faticoso e drammatico viaggio, fisico, intellettuale e spirituale, del filosofo di Taurisano, a partire dal luogo natio e dai primi studi sulle leggi della natura:

[…]

L’ispirazion nutristi ai tuoi pensieri

Su questo suolo, in questo ciel divini.

Quinci natura tutte quante aperse

a te sue leggi, rivelando come

di moto in moto innovasi perenne;

e dal profondo mar de le universe

vite, col canto de l’amore, il nome

                                                        di Dio possente sul tuo labbro venne.     (Sonetto I, vv. 7-14)

            Però, com’è noto, le innovative tesi furono accolte come eretiche:

Ahi ma vegliava sul tuo capo intanto

l’odio antico di Roma e a te la sorte

dei sofi amica preparava; o quanto

                                                       lutto circonda l’ideal del forte!                    (Sonetto II, vv. 1-4)

e gli costarono la condanna al rogo, eseguita a Tolosa, ma gli assicurarono memoria imperitura nei secoli successivi:

Nudo l’Europa errando a te traeva

la gioventù, ma il rogo a lei ti tolse

che splendido Tolosa ti accendeva:

rabido foco che il tuo corpo sciolse

giovane, non la eroica alma scioglieva,

                                                      che il secol novo, vendicando, accolse.    (Sonetto II, vv. 9-14)

            Nel sonetto che segue, intitolato A Galateo, L. Romano, G. Pisanelli, l’autore rivolge appassionati encomi a tre personaggi di Terra d’Otranto, di epoche diverse, che si distinsero per i significativi contributi offerti in differenti campi della storia nazionale: il Galateo per le scienze mediche («E tu sereno Galateo negli anni, / di duro ferro e di miseria gravi, / alla tua patria i rei morbi e gli affanni / di servitù pietoso attenuavi.» (vv. 1-4)); il Romano ‘altero’, «di liberal laude sì degno», nell’ambito politico-patriottico; il Pisanelli in quello giuridico («E tu che di sapienza ovunque empiesti / l’esilio, o Pisanelli, e al giovin regno / di leggi eterne monumento festi.» (vv. 12-14)).

            Chiudono la raccolta l’anacreontica di settenari piani e sdruccioli intitolata Il Rinascimento e tre componimenti, di varia lunghezza, intitolati Nella Magna Grecia presso il Jonio; Autunno meridionale; Sera primaverile. Le tre liriche risultano composte da esastiche (dieci strofe la prima lirica, quattro la seconda, due l’ultima) di endecasillabi a rima alterna i primi quattro, a rima baciata gli ultimi due (ABABCC) e confermano, da un lato, l’ammirazione per il mondo antico; dall’altro, pur nella varietà di temi e registri (elegiaco-intimistico, descrittivo-paesaggistico), un indubbio controllo degli elementi formali. Certamente rilevante appare l’attenzione nei riguardi dell’ambiente meridionale e, più nello specifico, di quello salentino, con descrizioni vivaci, talvolta animate da figure e consuetudini quotidianamente osservate ed emotivamente partecipate.

            L’attenzione nei riguardi della ‘sua’ terra costituì una costante della produzione del Marti, come è evidente, ad esempio, dalla lettura di raccolte come La verde Apulia[29], né mutò pure dopo il trasferimento, nel 1890 presumibilmente, in Piemonte (a Pallanza). Infatti, è del 1896 la raccolta intitolata Il Salento. Poemetto lirico[30], unasorta di «excursus storico sull’antico Salento, scritto in versi»[31], organicamente composto da alcune liriche (già apparse precedentemente) riguardanti personaggi illustri come Galateo, Liborio Romano, G.C. Vanini e da sonetti che ripercorrono, esaltandole con toni francamente troppo celebrativi e scelte linguistiche appesantite da un manierismo classicheggiante, le vicende storiche di alcune città. Particolare attenzione hanno suscitato, pure in anni successivi, quattro di questi sonetti, riproposti in varie occasioni[32] e dedicati alle città di Lecce, Brindisi, Taranto e Otranto. Il tour può essere riconducibile in qualche modo al filone della letteratura di viaggio, non nuovo nell’ambito della tradizione letteraria europea e italiana e, nello specifico, di quella salentina, da Galateo a De Giorgi, ma con una singolarità: il ‘viaggio’ è reso in versi, strutturati nella forma del sonetto e con soluzioni linguistiche che privilegiano in maniera netta scelte auliche, classicheggianti e non di rado orientate verso una accentuata trasposizione mitologica per riproporre valori e ideali esemplarmente ravvisabili nelle vicende e nei personaggi di queste città.

            Così nel sonetto intitolato Lecce, sorta «in su l’antica estinta / d’Ennio città», oltre che per le vetuste origini, la città salentina, «aureo soggiorno / di cortesia, d’amore, a cui la pinta / di rosea luce arride alba del giorno», viene celebrata per l’aria salubre e l’ubertosità del suolo:

Ride ai vapori vaghi pel sereno

dei cieli, ai templi, alle odorose zolle,

lieve, ondulate qual marino seno,

agli orti, ai campi di ubertade ognora

verdi, alle ville, ampio teatro e molle,

                                   ove hanno albergo insieme Pomona e Flora.                    (vv. 9-14)

            E si giunge alla «vecchia Brundisio», antica e nobile città, ricca di «glorie avite», ancor oggi «augusta reggia dell’Adria», che sorge «sul mar, che in doppio seno ondeggia / lungo la spiaggia, ove l’allegra vite / di lussuriosi pampini verdeggia» e che gode di clima favorevole e dell’operosità dei suoi abitanti, dediti ad ancestrali manifestazioni:

[…] e mentre alle addolcite

aure d’autunno esulti, a te spumeggia

a piene labbra la vendemmia e il mite

colon di mosto tinge l’anche e cento

cantan fanciulle un coro di baccanti

e in terse tazze libasi d’argento

                                           tra liete danze a Bacco ed all’Amore.                        (vv. 6-12)

            Non si tratta solo di celebrativa descrizione: la contemplazione di luoghi, eventi e personaggi diviene viatico per evidenziare i segni di una indelebile e autoctona identità storico-culturale, da recuperare e valorizzare, pure in prospettiva futura. Così si spiegano le scelte linguistico-espressive operate dall’autore, spesso impreziosite dall’uso di espressioni dotte, alcune di sicura ascendenza letteraria, e l’utilizzo di figure retoriche desunte dal repertorio classico («odorose zolle», «ubertade», «coro di baccanti», «liete danze a Bacco ed all’Amore»). Esemplare, in tale ottica, la lirica dedicata alla città che primeggia per nobiltà d’origine e per essere stata fucina di cultura e civiltà, la ‘regal’ Taranto, «già grande nell’età dell’oro», quando ancora «Roma non era», tanto da suscitare nel viaggiatore un insieme di forti e stranianti sensazioni (‘sacro orror’, ‘gioia e meraviglia’), miste ad echi rivenienti da un passato glorioso, nobilitato da prestigiosi personaggi:

Roma non era e tu, regal Taranto,

eri già grande nell’età dell’oro;

pargoleggiava ancor Troia sul Zanto

e la quercia era tua, tuo il verde alloro.

                                     Parmi d’Aristossene udire il canto                                    5

e d’Archita mirar l’alto lavoro

e del digiun Nesteo, famoso tanto,

ricordo i fasti e la memoria onoro.

Vinto da sacro orror, la secca sponda

                                       io bacio e calco con tremante piede                                  10

e gioia e meraviglia il cor m’inonda.

Salve, illustre Taranto, augusta sede

d’atavi regi e madre ognor feconda

di virtù, di saper, d’onor, di fede!

            Forse, ancor più partecipata è la celebrazione di Otranto, la «Niobe dell’Adria», ricordata, nell’alveo della diffusa tradizione martirologica otrantina, quale «città pregna di pianto e di memoria», gelosa custode dei resti dei martiri cristiani, esaltati con pose tirtaiche nel momento del loro estremo sacrificio, quando vennero trucidati «dal musulmano ferro» nei «bianchi ossari del tempio», dai quali si sentono «trepidare, / ancor di patria carità frementi».

            Numerosi dei componimenti pubblicati nelle raccolte succitate vennero riproposti su giornali e riviste dell’epoca ˗ anche dopo la scomparsa del Marti. Soprattutto ˗ lo si è già detto ˗ «La Democrazia», giornale fondato e diretto per oltre un trentennio dal fratello Pietro, accolse numerosissime liriche, alcune già edite, altre inedite che sarebbero dovute uscire negli anni successivi in organiche raccolte rimaste però incompiute per la improvvisa scomparsa di Luigi, che a far data dal 1888 e fino al momento della scomparsa, collaborò proficuamente e costantemente al giornale diretto dal fratello, in qualità di direttore della rubrica Arte e Storia e con una serie di articoli e saggi in prosa, pure dopo il trasferimento a Pallanza.

****

            Nella ridente frazione piemontese, Luigi Marti, tra impegni privati e istituzionali, continuò a comporre versi e nel 1902 pubblicò Dalle valli alle vette[33], una raccolta di ben sessantotto liriche raggruppate in quattordici sezioni, la maggior parte delle quali dedicate a luoghi, paesi, frazioni, piccoli borghi caratteristici dell’arco alpino: 1. Prefazione (due liriche); 2. Valle Ossola (nove liriche); 3. Valle Anzasca (tre liriche); 4. Pestarena (cinque liriche); 5. Macugnaga (sette liriche); 6. Ascensione (cinque liriche); 7. Tra ghiacci (sette liriche); 8. Valle del Mastellone (sei liriche); 9. Riti e costumi (sei liriche); 10. Valle Canobina (quattro liriche); 11. Emigrazioni (quattro liriche); 12. Valle Diveria (quattro liriche); 13. Ancora in alto (cinque liriche); 14. Inno alla Natura (una lirica).

Nella raccolta, di polimetrico impianto, spesso, oltre all’aspetto paesaggistico, è possibile individuare rilevanti spunti autobiografici e motivi di carattere storico-civile: non sempre tali tre linee fondamentali risultano ben amalgamate, ancorché l’autore rivendichi subito, in epigrafe, il faticoso percorso di maturazione compiuto per ‘spogliarsi’ dalle ‘vecchie consuetudini’ e approdare alla ‘nuova fede’:

Ho cercato alla profonda quiete delle valli, alla pura sublimità delle vette il vigore necessario a spogliarmi delle vecchie consuetudini ed aprir l’anima alla nuova fede. Nelle Cantiche che pubblico si riflette, con le impressioni della natura e della vita, il divenire della mia coscienza.

            Il punto di vista straniante e straniato del viaggiatore completamente assorbito dal paesaggio nuovo e per lui inusitato delle valli e al cospetto della maestosità alpina è viatico per un percorso interiore che si invera in un nuovo modo di far poesia, in un epifanico ‘divenire’ della coscienza e dell’‘arte’ subito ribadito nelle due liriche della Prefazione, intitolate La mia Arte e Dinnanzi alle Alpi.

Si tratta di una vera e propria dichiarazione di poetica: nel primo componimento, in endecasillabi e settenari, il Marti respinge con assoluta decisione «il lenocinio della nova Arcadia» e, in generale, opera un netto taglio censorio nei riguardi di ogni forma d’arte che, anziché ‘sentire’, indugia nella ricerca della ‘frase preziosa’, che ‘posa, cortigiana leggiadra’, che «in lascivi accordi / di rime decadenti / l’orecchio ai dami effeminati tenta» e ‘invoca’ per sé, ‘solitario poeta’, un’ ‘Arte diva’ che ‘insinui’ «nel petto novi sensi umani, con l’opra di Bellezza»[34].

            Negli endecasillabi a rima alterna delle tetrastiche del secondo componimento, l’impegno storico-civile risulta ancor più accentuato e il fondale paesaggistico si anima con la rievocazione di figure ed eventi ‘eroici’ di un passato glorioso fondato su valori e ideali che hanno nobilitato la storia nazionale, da Sud e Nord della penisola. Il poeta-viaggiatore opera, in qualche misura, una sintesi di tale storia:

Dalla classica terra ove più belli

splendono i soli e ridon dolci i piani

e tre mari ne cullano gemelli

le sponde e il sen ne scaldano i vulcani

                                  un saluto ti reco, Alpe severa,                                   5

dai tuoi puri lavacri al ciel sorgente,

gigantesca d’Italia ardua barriera,

fosco il pendio, bianca la cima algente.

Fu ben quella d’Italia un dì la culla,

                                   dove prima fiorì dai lidi Eoi                                 10

la bella civiltà, greca fanciulla,

greca madre dei Numi e dagli Eroi.

Della storia d’Italia, Alpe, tu sei

la nivea reggia, il monumento altero,

                                  donde la Patria con i suoi trofei                             15 

guarda, sovrana dell’uman pensiero.

[…]

                               Da queste rupi donde pria volasti,                            25 

o Libertà, sui campi di Legnano,

e tante volte il teutono incalzasti

vinto, umiliato nel lombardo piano;

da queste rupi a salutar m’affaccio

                                le redente dai padri itale sponde                              30

e luminoso un orizzonte abbraccio

d’ardite fedi e speranze feconde[35].

            Occorre partire da tali punti fermi per guardare verso un ‘orizzonte d’ardite fedi e speranze feconde’, di libertà intellettuale e di progresso, di epifanico rinnovamento civile, morale e politico, perseguito da una ‘falange’ di innovatori, di «apostoli e ribelli, / annunziatori del grande avvenire», in grado di ‘piegare’ i poteri forti, ‘tiare ed imperi’. Di tale ‘falange’ si sente parte integrante ed attiva lo stesso Marti, tanto da rivolgere un accorato appello a mobilitarsi con indifferibile urgenza per mettere fine ai «foschi dì» nel segno di universali principi di «Pace e Giustizia», pure secondo istanze di matrice socialista ampiamente diffuse tra fine Ottocento e inizi Novecento, alle quali rinvia in maniera evidente l’iterazione «Avanti! avanti!» del verso 37:

A che tu miri, o nova gente, in nova

alleanza di forza e di voleri?…

                                 La falange noi siam che si rinnova;                               35

piegano innanzi a noi tiare ed imperi.

Avanti! avanti!… apostoli e ribelli,

annunziatori del grande avvenir;

una sacra parola in voi favelli:

                                    Pace e Giustizia, i foschi dì finir![36]                                40

            In tale ottica, si spiega anche l’acribia del Marti sia nei riguardi di taluni prestigiosi autori della tradizione letteraria nazionale, che in precedenza avevano goduto di maggior credito, Dante e Foscolo primi fra tutti, sia verso coeve manifestazioni poetiche, come, ad esempio, «il decadente morbido canto all’anima straniero». Fissata in maniera perentoria la distanza rispetto a vacue manifestazioni poetiche, quali ˗ lo si è già detto ˗ «il lenocinio della nova Arcadia» o, più in generale, l’arte che con «lascivi accordi / di rime decadenti / l’orecchio ai dami effeminati tenta», lo scrittore di Ruffano fissa le coordinate di una nuova poetica che si sostanzia di solidali e universali valori:

Vecchio è il canto dell’odio ed il fremente

carme di Dante e di Foscolo altero,

triste il canto del senso, il decadente

morbido canto all’anima straniero;

                                 un nuovo accento che sale giocondo                             45

l’Alpe e traverso i mari e i cieli va,

come un amico, a salutare il mondo:

il canto io sento dell’Umanità[37].

            Sicché, quasi in emulativa contrapposizione, campeggiano talune figure che quei valori incarnano, pure in momenti di nostalgico intimismo lirico: la figura materna, «venerabil rovina in cui son tutti / vivi gli affetti della sola fede, / del sol amor, tra mille altri distrutti»[38]. Vale la pena segnalare pure le tre liriche, intitolate Sangue latino, nelle quali l’autore si sofferma sul tema dell’emigrazione, rivendicando con evidenti echi danteschi l’alta funzione civile svolta dall’emigrante («Casa e patria abbandona, / ogni cosa diletta / più caramente, e lunge i passi affretta / dove ferve e risuona / la civile procella del Lavoro»), al quale, con un accorato appello, viene demandato l’alto compito di operare rinnovando il  «Genio antico», con l’orgoglio di mostrarsi degno  del «vecchio sangue latino» di petrarchesca memoria:

Vecchio sangue latino

prosegui il tuo destino tra le genti

cui cerchi asilo e pane; plaüdenti

rendile allo splendore

dell’opra bella ch’esce di tue mani

e l’aura sente del tuo Genio antico[39].

Continui e insistiti risultano i riferimenti alla ‘dignità’ del lavoro, specie se finalizzate al miglioramento delle condizioni civili e sociali per più ampie e avvertite istanze di pace e fratellanza, all’interno delle quali va notata una lungimirante attenzione nei riguardi delle problematiche ˗ oggi di scottante attualità ˗ dell’uso della tecnica.  Si legga, a mo’ d’esempio, il primo dei due componimenti, raccolti nella sezione Valle Diveria e intitolati Virtù del lavoro. La lirica è formata da nove versi, endecasillabi e settenari con rima aBbACcDDC:

O ferro benedetto

alle fatiche degli umili amico,

tu non dal seno antico

della terra venuto onde nel petto

                                         t’immergano i fratelli vïolenti,                                      5

ma per umani intenti

foggiato, inclito ferro, a dare lampi

sovra ogni zolla degli aperti campi,

ministro di dolci arti a tutte genti![40]

            Negli anni successivi, pure durante i due anni di residenza a Salerno, Luigi Marti continuò a provarsi in versi e in prosa, con saggi di vario argomento, spesso derivati dalle numerose conferenze da lui tenute[41]. Tuttavia, del lungo e articolato percorso, civile, morale, ideologico e spirituale, compiuto da Luigi Marti e maturato in tempi diversi per difformi sollecitazioni, recano indelebile attestazione le tre raccolte poetiche.

[in Pietro Marti e i suoi tempi. Atti dell’Incontro di Studi (Casarano di Lecce, 21 aprile 2023), a cura di Fabio D’Astore e Paolo Vincenti, Giorgiani Editore, Lecce 2024]


[1] R. Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabilimento tipografico F. Scorrano & C., 1931.

[2] Ecco la citazione di Pietro Marti: «Così, in questa estrema plaga d’Italia fiorì l’arte di Vincenzo Ampolo da Surbo, di Trifone Nutricati da Copertino, di Giuseppe Antonio Scarano da Massafra, di Baldassarre Terribile da Brindisi, di Luigi Marti e Carmelo Arnisi da Ruffano, di Giuseppe Gigli da Manduria, di Giuseppe De Dominicis da Cavallino, di Arturo Tafuri da Galatone e di qualche altro, ora sommerso dall’onda della facile dimenticanza»: v. Ellenio (P. Marti), Un poeta salentino (Arturo Tafuri), in «La Voce del Salento», a. IX, n.1, 1 gennaio 1931, p. 2.

[3] A. Calabrese, Le Memorie di Pietro Marti, in «Lu Lampiune», a. VIII, n. 1, aprile 1992, Lecce, Edizioni del Grifo, pp. 27-34. In particolare, alla p. 33, Calabrese riporta il seguente passo di Pietro Marti: «Si era alla vigilia del Natale di quel funesto 1874. […] mio fratello Luigi ˗ gagliarda tempra di poeta e di critico, affermatasi più tardi in una successione non interrotta di opere ˗ accolse come una fortuna la nomina d’istitutore nel Convitto Palmieri di Lecce».

[4] A. de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in «Nuovi Orientamenti», n. 85, marzo-aprile 1984, pp. 25-28.

[5] P. Vincenti, Caro alle Muse: Luigi Marti da Ruffano a Pallanza, in «Il Bardo», a. XXIX, n. 2, luglio 2020, Copertino.

[6] A maggio stando al profilo biografico intitolato Un poeta salentino: Luigi Marti, apparso nel vol. III dell’«Almanacco Illustrato: Il Salento» del 1929 (cfr. Il Salento. Rassegna annuale della vita e del pensiero di Terra d’Otranto, vol. III per l’anno 1929 compilata da Gregorio Carruggio, Lecce, Editrice “L’Italia Meridionale”, p. 121); nato invece il 12 gennaio stando a quanto scrive il fratello Raffaele nel suo già citato L’estremo Salento del 1931. Però, dall’Atto di battesimo, pubblicato dal de Bernart (p. 25), risulta che il Marti nacque il 19 febbraio.

[7] Cfr. A. de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, cit., p. 25.

[8] P. Vincenti, Caro alle Muse…, cit., p. 7.

[9] Un poeta salentino: Luigi Marti, in «Almanacco Illustrato…», cit., p. 121.

[10] L. Marti, Un eco dal villaggio, Lecce, Stabilimento tipografico Scipione Ammirato, 1880.

[11] Ecco i titoli delle nove liriche: La raccomandazione (52 vv.); Ingannata (36 vv.); L’obbligazione (52 vv.); Prostituita (48 vv.); Il villano (al ritiro) (124 vv.); Il ladro (di campagna) (108 vv.); La saltimbanca (20 vv.); L’espatriato (157 vv.); Il zoccatore (121 vv.).

[12] L’Appendice comprende un lungo componimento (84 versi suddivisi in quattro stanze di varia lunghezza), intitolato Prima della partenza, una lirica di cinque tetrastiche, intitolata Confessione, e il sonetto Garibaldi sulla tomba di Ugo Foscolo (in Inghilterra).

[13] L. Marti, A chi legge, in Id., Un eco dal villaggio …, cit., p. 3.

[14] Ibid.

[15] A. L. Giannone, La parola antagonista dell’avanguardia: Lucini e i futuristi, in E. Mondello, G. Nisini, M. Venturini (a cura di), Contronarrazioni. Il racconto del potere nella modernità letteraria. Atti del XXII Convegno Internazionale della MOD (17-19 giugno 2021), Pisa, Edizioni ETS, 2023, t. I, p. 3.

[16] Ivi, p. 4.

[17] Sono le parole pronunciate dal conte Ugolino della Gherardesca all’inizio del racconto della tragica fine sua, dei figli e dei nipoti, lasciati morire di fame per ordine dell’arcivescovo Ruggieri: «[…] Tu vuo’ ch’io rinovelli / disperato dolor […]».

[18] L. Marti, Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889.

[19] È l’inizio dell’Egloga IV di Virgilio.

[20] Giuseppe Garibaldi (Nizza, 1807 – Caprera, 1882).

[21] Giovanni Prati (Campomaggiore (TR), 1814 – Roma, 1884).

[22] Giuseppe Libertini (Lecce, 1823-1871).

[23] Antonio De Ferrariis detto Galateo (Galatone (LE), 1444 – Lecce, 1517).

[24] Liborio Romano (Patù (LE), 1793-1867).

[25] Giuseppe Pisanelli (Tricase (LE), 1811 – Napoli, 1879).

[26] Giulio Cesare Vanini (Taurisano (LE), 1585 – Tolosa, 1619).

[27] Cfr. nota 12.

[28] La citazione è tratta dal Purgatorio, VI, vv. 125-126.

[29] L. Marti, La verde Apulia, Lecce, Tip. Editrice Salentina, 1889.

[30] L. Marti, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896.

[31] P. Vincenti, Caro alle Muse…, cit.

[32] Cfr. almeno Un poeta salentino: Luigi Marti, apparso nel vol. III dell’«Almanacco Illustrato: Il Salento» del 1929, cit., pp. 119-120; A. de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, cit., pp. 26-27.

[33] L. Marti, Dalle Valli alle Vette. Cantiche, Milano, Società editrice “La Poligrafica”, 1902.

[34] Ivi, pp. 9-11.

[35] Ivi, pp. 13-14.

[36] Ivi, p. 15.

[37] Ibid.

[38] Sono i vv. 9-11 del primo di due sonetti intitolati A mia madre, presenti nella sezione Emigrazioni: cfr. Ivi, p. 201-202.

[39] I versi sono tratti dalla lirica III: cfr. Ivi, p. 211.

[40] Ivi, p. 215.

[41] Per più esaustive notizie bibliografiche, si rinvia a P. Vincenti, Caro alle Muse…, cit.

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