Da allora il nostro rapporto non si è mai interrotto e anzi si è fatto sempre più intenso fino a diventare, nonostante la differenza d’età, un autentico sodalizio umano e letterario. Ho scritto la prefazione a tre suoi libri in prosa e in versi: Il bivio e le parole (Lecce, Manni, 1989); Altri giorni, altri racconti (Lecce, Argo, 2008); Nel buio, la parola (Monteroni di Lecce, Edizioni Esperidi, 2016). Ne ho recensiti altri: Segni del diluvio, Manduria, Lacaita, 1981 (sulla rivista “L’albero”, n. 66, 1981); Il profumo dei gelsomini, Lecce, Argo, 1994 (sul “Quotidiano di Lecce” il 24 dicembre 1994; Parapagliapiglia, (sempre sul “Quotidiano” il 18 dicembre 1998 ). Ne ho presentati altri ancora, fino a Nel buio, la parola, nella serata del 21 gennaio 2017, a Monteroni, insieme a Simone Giorgino. In quella che fu l’ultima volta che ci incontrammo, Bernardini, pur fiaccato nel fisico, riuscì a tenere, alla fine, un discorso lucido e coerente rimasto impresso nella mia memoria.
Il nostro rapporto, oltre che su reciproche visite (io andavo a trovarlo nell’antica casa di famiglia al centro di Monteroni, da lui ristrutturata; lui veniva spesso nel Dipartimento di Filologia, linguistica e letteratura, a Porta Napoli, dove insegnavo), era basato su lunghe e frequenti telefonate nel corso delle quali Giovanni mi intratteneva, con la sua ben nota capacità affabulatoria, rievocando fatti della sua vita, personaggi da lui conosciuti e mettendomi al corrente della sua attività. Spesso mi mandava anche articoli e scritti di vario genere, dispersi su giornali e riviste, che conservo accuratamente. Ovviamente possiedo anche tutti i suoi numerosi libri sui quali apponeva sempre dediche affettuose, come la seguente che vergò proprio sull’ultimo, Nel buio, la parola, a distanza esattamente di quarantatré anni dalla prima: “A Lucio, | carissimo vecchio amico, | mio ottimo prefatore, | con gratitudine e i più affettuosi | auguri per Natale e l’anno nuovo. | Giovanni | Natale 2016”. Meno frequenti, invece, erano le lettere che mi spediva, dati, come s’è detto, i ripetuti contatti telefonici che c’erano tra di noi.
Ma non è mia intenzione procedere ora a una ricostruzione dettagliata del rapporto con Bernardini che rinvio a un’altra occasione. Torniamo invece alla lettera che qui pubblichiamo, sicuramente una delle più significative che mi ha inviato, soprattutto per il prezioso materiale in essa allegato. Qualche tempo prima avevo chiesto a Giovanni il manoscritto di qualche poesia per entrare nel suo “laboratorio di scrittura” e vedere meglio, più da vicino, “come lavorava”. Con la consueta gentilezza e quasi scusandosi del gesto, mi inviò sei (non quattro, come scrive nella lettera) manoscritti di poesie, risalenti a vari periodi della sua produzione ed esattamente: Ancora queste strade (in due parti), datata “30 giugno 1954”, poi compresa in Passaggi di stagioni lontane (Carmiano, Calcangeli edizioni, 2011, p. 80); Le vecchie faticano ancora (datata “settembre 1959”, in due versioni), poi in Segni del diluvio (Manduria, Lacaita, 1981, pp. 27-28); Udremo gridare l’autunno, poi in Segni del diluvio,cit., pp. 32-33; Per Federico García Lorca (a cinquant’anni dalla morte), datata “22 novembre ‘86”, poi in Emblema e metafora (Lecce, Piero Manni, 1988, p. 32); Tornerà settembre, datata “15.7.87”, poi in Nell’imminente inverno (Manduria, Lacaita, 1995, p. 42); La ricca offerta, datata “20-21. 2. ‘88”, poi in Nell’imminente inverno, cit., p. 45. Quasi tutte presentano cancellature e modifiche che si potrebbero esaminare alla luce della cosiddetta “critica delle varianti” di cui uno dei massimi esponenti è stato proprio Giuseppe De Robertis, maestro di Bernardini all’Università di Firenze.
Tra queste poesie, come s’è detto, figura Le vecchie faticano ancora, di cui trascrivo il testo edito in Segni del diluvio e pubblico la foto della prima versione, vergata sul recto e sul verso di un foglio di carta protocollo, in modo che volendo si possano mettere a confronto. Ecco dunque la poesia:
A Lecce le ragazze scoccano sguardi fondi d’ombra.
Vanno a gambe nude al primo sole di marzo
nella città che si estenua in languori primaverili.
Ore solenni batte il sole nell’anfiteatro,
tutte bionde sono le chiese e i santi
con volto poroso trascolorano fra tortili colonne.
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Conduceva il serpente delle Giravolte
ai postriboli vicino alle Scalze.
Adesso una femmina puoi averla su viale degli Studenti
per appena cinquemila lire e il ruffiano
a chi la vuole affitta pure la macchina.
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Non solo gli avvocati, qui tutti hanno
fior di dialettica sulla punta della lingua
e t’incalzano dappresso, loici sottilissimi,
seduti nei caffè o dritti allo scirocco sulle piazze.
Con pietà secolare han fiorito di chiese le strade e i vicoli,
oggi il voto lo danno alle destre,
per sentirsi in coscienza tranquilli
si recano a messa sottobraccio alle mogli
(sbirciano intanto le natiche sode di quella che passa).
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Sotto l’arco di Carlo V si sfioccano nubi iridate
e l’obelisco squilla esclamativo contro il cielo nudo.
Dalle porte i santi Oronzo Giusto e Fortunato non riescono più a trattenere
la città che oltre la circonvallazione corre verso il mare.
Ma nelle corti stemmate, frondose di festoni barocchi
e di mostri, le vecchie faticano ancora ai lenti ricami.
Statue di cartapesta si asciugano accanto
in attesa d’avere occhi dentro le orbite vuote.
Come si può vedere, il titolo definitivo è scelto dopo altri due che vengono depennati: “A Lecce le ragazze” e “In attesa d’avere occhi”. Inoltre ci sono alcuni termini cancellati e sostituiti da altri poi accolti nella seconda versione manoscritta e in quella a stampa.
Quando lessi Segni del diluvio, rimasi particolarmente colpito da questa poesia. Nella recensione del libro, poc’anzi citata, la segnalavo tra le più convincenti della sezione Ci vuole coraggio (1957-60) e scrivevo che anche se “ha un titolo un po’ fuorviante […] è in realtà un acuto ritratto di una città, Lecce, della quale vengono svelate le intime contraddizioni”. In essa, in effetti, emergono una topografia cittadina già presente nelle raccolte “lunari” di Bodini degli anni Cinquanta (le Giravolte, le Scalze, l’arco di Carlo V), nonché alcune tradizioni artistiche identitarie del territorio (il barocco dei “santi / con volto poroso” e delle “colonne tortili”, la cartapesta con le statue che “si asciugano” al sole per le strade). Ma mentre in Bodini c’è una straordinaria interpretazione della città proprio attraverso la chiave di lettura del barocco (e si veda soprattutto Lecce, in Dopo la luna), qui prevale una osservazione di tipo realista con accenni di polemica sociale e politica (“oggi il voto lo danno alle destre”). Non a caso, la poesia vide la luce per la prima volta sul n. 4 del 1959 della rivista leccese “Il Campo”, fondata nel 1955 da Francesco Lala e da lui diretta insieme a Nicola Carducci e allo stesso Bernardini, la quale si fece portatrice dell’esperienza neorealistica nel Salento. Essa comunque, anche per questo, resta una preziosa testimonianza di una stagione storico-culturale, caratterizzata dal generoso “impegno” degli intellettuali salentini tra i quali una posizione di primo piano spetta a Giovanni Bernardini.