Peraltro, essendo diventata una moda smodata, e di conseguenza uno status-symbol che più symbol non si può, possedere un solo cane è quasi da miserabili. Ce ne vogliono almeno due. E se proprio non vogliamo rischiare d’essere guardati con sufficienza, il numero tre, come sempre, sarebbe quello perfetto: un Bull Terrier, che gli esperti considerano il gladiatore delle razze canine, un massiccio Pastore Tedesco o Maremmano, e un caracollante Bassottino nano potrebbero essere sufficienti per cominciare a vivere decorosamente la nostra nuova vita… Se poi vogliamo aggiungere un Volpino bianchissimo e vaporoso, che attira di solito le belle signore, ma sì: aggiungiamolo pure! Vuoi mettere sedici zampe contro dodici?! Senza contare quelle del padrone, naturalmente…
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Affinché non si pensi, indebitamente, che io non ami i cani o altri animali, dirò che ho trascorso la mia infanzia e adolescenza in casa di mia nonna Anna a Galatina, circondato da ben quattro cani da caccia, che per lo meno avevano un mestiere, e si guadagnavano da vivere (Diana, una setter bianca, di proprietà di mio padre; Tom e Bebi, che erano i due bracchi di zio Nino; e Fanny, un altro setter, fulvo, di zio Pippi); mentre a Sogliano – dove stavamo un paio di mesi in estate, fino alla vendemmia – la zia Carmeluccia, che ci ospitava, aveva un ricchissimo pollaio, vari conigli, due papere, una capretta, una bastardina nera di nome Margò (che abbaiava ai trainieri, per sentirli schioccare la frusta o lu scurisciatu che dir si voglia), gatti a profusione, e tutti gli animali non domestici che in quel paradiso terrestre villeggiavano in libertà: dalle lucertole ai gechi alle api ai colombi alle gazze, e fino a qualche volpe avventurosa… A Roma, infine, abbiamo avuto in casa (ma il loro regno era il terrazzo fiorito) due gatti stupendi – Leo, poi Mela –, che per più di vent’anni ci hanno insegnato miliardi di belle cose.
Insomma, a parte le zanzare, gli alligatori, i seccatori, e pochi altri, ho simpatie per tutti gli esseri viventi del creato.
Con qualche riserva per il genere umano (me compreso, naturalmente, pur dandomi da me di tanto in tanto qualche tiratina d’orecchi), quando finiamo col prendere strade sbagliate, che portano a imbarazzanti aberrazioni o addirittura smarrendo quel senso profondamente etico di civiltà, da tenere invece sempre a lucido, per poterlo passare ai nostri figli possibilmente migliorato da come l’abbiamo avuto dai nostri padri.
Ergo: amo i cani e non guardo in cagnesco nessuno.
Tuttavia, non posso fare a meno di notare come oggi – ormai troppo diffusamente – si ostenti il proprio “Fido” come segno vanesio di prestigio e di sterile esibizionismo. Alla benedizione degli animali a Novoli, durante la festa di sant’Antonio abate, c’erano quest’anno più cani che cristiani. Salvo poi a far soffrire la bestia o ad abbandonarla al suo destino, quando la vanità del padrone o della padrona si esaurisce.
Che il cane sia sempre il migliore amico dell’uomo è ancora sicuramente vero.
Quello che forse non è più sicuro è che sia vero lo stesso concetto a parti invertite.
Al punto che il vecchio monito latino Cave canem (Attenti al cane) andrebbe forse aggiornato e/o completato con Cave dominum (Attenti al padrone). Alla prossima.
[“Il Galatino” anno XLVIII n. 3 del 13 febbraio 2015]