Le vicende delle reliquie di Sant’Antonio di Padova attraverso varie testimonianze scritte


 Reliquiario dell’orefice Giuliano da Firenze (1436), è conservata la lingua di sant’Antonio.

     Il 22 febbraio 1666 gli amministratori dell’Arca si appigliarono a convertire l’antico luogo del Capitolo in Santuario delle Reliquie; ed avevano già deliberato di iniziare i lavori,“Ma per i discrepanti pareri volsero più anni,  29 gennaio 1690 Filippo Parodi, architetto e scultore genovese, ne presentava il modello e l’11 febbraio faceasi contratto con Giovanni e Grazioso fratelli Grassi, tagliapietra di Venezia, che l’eseguissero l’architettura. Si approvò dei presidi il modello perché al gusto conforme che allor dominava” (Gonzati)e al posto del Capitolo venne scelta come luogo la cappella delle Stimmate di San Francesco d’Assisi, che era stata costruita nel 1378 per conto di Francesco Turchetto, cittadino padovano.

     E ancora il Gonzati scive:“Nel 1691, demolita l’absidiola, si innestò lo sfarzoso cappellone rotondo e cupolato” su progetto di Filippo Parodi, allievo del Bernini. La costruzione fu compiuta in tre anni e poi si iniziò a decorare l’interno, che è una delle più splendide testimonianze del barocco italiano. Ma l’edificio dovette patire lunghi ritardi e mutamenti.  La cupola parodiana a lanterna fu demolita nel 1739 per motivi di staticità e sostituita dall’attuale. E per finire era comparsa Ludovica, ultima superstite della famiglia Turchetto che accampava diritti e impediva il proseguimento della fabbrica.  Alla fine, fu merito di “Angelo Diedo senator veneto a sopire le controversie, riscuotere gli animi, ravvivar le premure dei cittadini”  (Gonzati,  vol. I p. 96).

     Il 10 aprile 1745 si stabilì la data della traslazione delle reliquie e i frati e i presidenti dell’Arca del Santo “sono unanimi e concordi venuti in opinione di stabilire e determinare la domenica dell’ottava del glorioso Santo prossima ventura” e ”che la sera precedente al giorno, come sopra destinato, siano trasportate tutte le reliquie dalla sagrestia al Santuario e poste nei loro nicchi, a riserva della santa lingua qual stimano bene riponerla nella custodia dell’altar maggiore per esser poi esposta alla pubblica venerazione”. (Arch. Sartori). Si decise anche che “affinché la funzione stessa riuscir possa più decorosa…. che sarebbe cosa molto lodevole invitar alla funzione medesima l’eminentissimo sig. cardinale Rezzonico, dignissimo nostro vescovo, col Rev.mo capitolo” (Sartori). Carlo Rezzonico era nato a Venezia nel 1693, vescovo di Padova dal 1743 fino al 1758 quando fu eletto papa con il nome di Clemente III; morì a Roma nel 1769.

     Il 24 aprile 1745 si volle sentire il parere del prof. Giovanni Battista Morgagni (1682-1771), celebre anatomo patologo dell’Università degli Studi di Padova e“padre della patologia moderna”, come ebbe a definirlo Rudolf Virchow (1821-1902), anatomo-patologo tedesco. Nell’ Archivio Sartori si legge “fatto riflesso della veneranda congregazione che nel trasporto della santa Lingua vi possi esser qualche pericolo e difficoltà, stante esser molto grave e pesante il reliquario, li presidenti dell’Arca per loro salvezza e per rassicurarsi circa detta traslazione, pensarono di pregar l’Ill.mo Sig. Morgagni, pubblico professor, perché, veduta ed attentamente considerata detta sacra lingua e reliquario, si compiacesse dire la sua opinione circa detto trasporto”. E venuto lo stesso a far le ricercate osservazioni, avendosi espresso che quando detta lingua venga trasportata e accompagnata con somma esatta equalità che s’approssima alla quiete stima non potevi esser alcun pericolo, attesa anco la situazione in cui s’attrova la medesima, levato poi dal detto Sig. Morgagni il reliquario, lo trovò molto pesante. Qual esposizione intesa e considerata dai presidenti dell’Arca hanno di comune consenso terminato che a scanso di qualunque pericolo e per cauto trasporto d’una reliquia così singolare e veneranda sia trasportata detta santa lingua sopra l’altar maggiore con quell’ornamento che sarà stimato più decente, conforme anco sarà arricordato dalla cognitione dei fornidori, per essere esposta alla pubblica adorazione” (Sartori).

     Padre B. Gonzati nel 1853 (vol.II) così descrive la traslazione delle reliquie dalla Sacrestia alla nuova cappella:“Condotta a compimento l’edificazione di quella nuova e sontuosa cappella che nel secolo scorso erasi fabbricata alfine di custodirvi tutte le sacre Reliquie che sino a questo tempo si conservavano negli armadi di sagrestia, il 20 giugno 1745 se ne fece pubblica traslazione. Il sacro rito si solenneggiò con insolita magnificenza, giocondato dall’universale contentezza di Padova, da una affluenza quasi incredibile di nazionali, francesi, spagnuoli, alemanni. I padri nostri ce ne tramandarono la descrizione non infiorata di eleganze, bella tuttavia pe ‘l candore e l’ingenua letizia che vi traspira. La chiesa era tutta vestita a festa, ornata qual bellissima sposa; ma non sì che la semplicità maestosa dell’architettura, la ricchezza dei marmi, la grandezza de’ monumenti sepolcrali avessero dovuto cedere ad una tela, ad un festone, ad un damasco tuttoché fimbriato d’oro e d’argento. Tappeti a trapunto di vari vividi colori ed arazzi istoriati coprivano i gradini degli altari, luccicanti per candelieri, tabelle, vasellami d’argento. Dalla serraglia degli archi pendevano lumiere di cristallo, proporzionate in grandezza alla vastità maggiore o minore degli archi; ne pendevano di più magnifiche e rilucenti dalla sommità dei catini, oltre ai soliti doppieri che sporgeano dagli angoli dei pilastri. Brillava il tempio di 1160 lumi; sfolgorava di fiaccole il Santuario nel cui centro una lumiera di argento dorato spandeva tale una luce che riflettendosi dai reliquiari, dagli ori, argenti, gemme ed altri oggetti preziosi del Tesoro. Abbagliava gli occhi dei risguardanti. La sera del 19 giugno i padri, i deputati del Municipio, i presidenti dell’Arca e due cancellieri vescovili s’ adunarono nella sagrestia. Due sacerdoti levavano dall’antico armadio ad uno ad uno ordinatamente i reliquiari che incautamente veniano dall’autorevole consesso riconosciuti, descritti dai cancellieri e messi a catalogo, poi consegnati agli altri due padri che tra ardenti fauci li trasportavano al nuovo Santuario. L’ultima che rimaneva era la Lingua che si volle onorare con rito più segnalato. Il p.m. Giampaolo Cesarotti preceduto dalla conventuale famiglia che dirigeva, seguito dai membri tutti della ragguardevole adunanza, tra luminarie, inni, cantici festosi, ne fece la traslazione all’altare maggiore, ove tutta l’intera notte la si tenne guardata da bombardieri e da vigili sacerdoti. Il dì seguente il Cardinale Carlo Rezzonico vescovo di Padova col suo senato, con le congregazioni dei parroci e molti altri del clero recavasi alla Basilica; e presenti in nobilissima assise i magistrati, il municipio, i capi della milizia, pontifica la messa. Lo splendido rito condecoravano il Cardinale Crescenzi, legato di Ferrara, mons. Benzoni vescovo di Chioggia, mons. Rezzonico, nipote del cardinale, ed altri prelati alla maggiore tribuna. Al pari, a collocare i quali aveasi eretta una ringhiera nella maggiore tribuna. Al pari del mattino e con pompa ancor più solenne fu festeggiata la sera. Cantato pontificalmente l’inno ambrosiano e data la benedizione con la incorrotta Lingua, il Cardinale ripose nel Santuario il prezioso deposito, lo suggellò, e fatto dai cancellieri il rogito, fu rinchiuso nella nicchia. Intanto sonare a festa le campane tutte della Città, rimbombare di marziali tormenti le mura, bande musicali rallegrare con grata sinfonia il tempio; persino nel ballatoio della facciata trombe, timpani, tamburi mitigare il rammarico di coloro che impediti dalla folla non poteano penetrare nella Basilica. Nella sola musica furono spese lire venete 2736. Ad eternar la memoria di giorno così festivo fu decretato dai Presidi alla chiesa di coniare certo numero di medaglie d’oro, d’argento e di rame (Gonzati).

       Il 29 giugno 1745 il Podestà di Padova, Girolamo Querini, e Leonardo Loredan, capitano di Padova, scrivevano la seguente relazione al consiglio dei dieci: “fu nel giorno delli 20 cadente eseguito con la decenza maggiore il trasporto delle molte insigne Reliquie e Lingua del glorioso Sant’Antonio dal luoco della Sacrestia, ove esistevano, nel nuovo Santuario all’oggetto medesimo eretto dietro l’Altar maggiore e che per la sua architettura, per la qualità dei marmi e per l’eccellenza de’ lavori molto ben corrisponde alla preciosità del Tesoro, che è destinato a  racchiudere”. La cerimonia fu “resa autentica con pubblico solenne Instromento in atti di Nodaro per renderne perpetua la memoria, e la fede anco a posteri(Sartori).

      Il 9 luglio 1745 Pietro Grimani, doge della Repubblica di Venezia (in quel periodo Padova era sotto la Serenissima), scrive al podestà Girolamo Querini e al Capitano Leonardo Loredan dicendo: “necessario che reliquia cotanto riguardevole resti custodita colla maggiore circospezione e difesa possibilmente dall’ingiurie del tempo” (Sartori) “facciate chiudere ed assicurare con pubblico sigillo il vetro che rinserra nel ripostiglio il suo reliquario, potendosi sperare di tal modo che intatta a lungo rimanghi all’adorazione dei fedeli la medesima santa lingua” (Sartori).

     All’interno della Cappella delle Reliquie, detta anche Cappella del Tesoro, si nota il gruppo marmoreo di Sant’Antonio in gloria, opera del Parodi. Sulla balaustra ci sono sei statue: S. Francesco d’Assisi, la Fede, la Penitenza, l’Umiltà, la Carità e san Bonaventura, opere tutte del Parodi. Fede, Penitenza, Umiltà e Carità sono le virtù esercitate dal Santo di Padova. Ci sono tre nicchie che contengono più di cento tra reliquari, calici, ex-voto, utensili sacri e cimeli, pezzi tutti che costituiscono il “Tesoro” della Basilica e che, nonostante le opere portate via nel 1405 per cause belliche e soprattutto nel 1797, durante l’invasione francese, rimane un cospicuo patrimonio d’arte, di culto e di memorie.

     Nella nicchia centrale, dal basso verso l’alto, si trova prima la reliquia delle cartilagini laringee, che attirarono l’attenzione dei medici della Commissione di Ricognizione del 1981; allora furono collocate  in un reliquario, opera di Carlo Balljana, nato in provincia di Treviso nel 1944 e noto come “scultore del vento e dei papi”; sopra c’è la reliquia della Lingua del Santo in un finissimo reliquario che da secoli la conserva, opera del 1434-1436 in argento dorato di Giuliano da Firenze, allievo del Ghiberti. In alto si trova la reliquia del mento in un reliquario a forma di busto con aureola e cristallo al posto del volto, dono del cardinale Guido de Boulogne, che il 14 febbraio 1350 venne a Padova per sciogliere un voto al Santo, dopo essere stato guarito dalla peste nera. Sempre nella nicchia centrale, c’è il reliquario del cilicio del Santo e quello della cute del capo di S. Antonio.

     Nella nicchia di sinistra, tra le altre reliquie c’è il reliquario dell’osso radio di S. Antonio, ex voto (1672) per la guarigione di Vittorio Amedeo II di Savoia; il macigno che servì da guanciale, secondo la tradizione, a S. Antonio, donato nel 1806 dalla badessa Elisabetta Speroni. Nella nicchia di destra c’è il reliquario del dito del Santo, quello dei capelli e altri. Inoltre, nelle nicchie sono presenti anche reliquari di San Francesco d’Assisi, di S. Chiara, Di S. Ludovico d’Angiò, di S. Bernardino da Siena, di S. Giuseppe da Copertino, di S. Massimiliano Kolbe, di S. Pio X, di S. Giovanni Paolo II, di San Leopoldo Mandic.

     La reliquia del mento venne rubata dal clan di Felice Maniero, capo della Banda del Brenta, con l’intenzione di costringere lo Stato a scendere a patti per la liberazione del cugino Giulio e per ottenere la revoca delle misure di sorveglianza a suo carico, come egli stesso disse in una intervista rilasciata nel 2011 per “riparare al dispiacere che ho provocato ai fedeli”. Egli aveva ordinato di prendere la reliquia della Lingua di Sant’Antonio “più sostanziale per lo scambio, e invece quegli zucconi mi arrivarono con il mento”. La clamorosa rapina avvenne il 10 ottobre 1991, alle ore 18,20: tre banditi armati e coperti da passamontagna, sotto la minaccia delle armi, effettuarono il furto. La notizia si diffuse rapidamente in tutto il mondo. I frati e il rettore della Basilica lanciarono appelli affinché venisse loro restituita la reliquia; il Santo Padre Giovanni Paolo II, tramite il suo delegato pontificio, mostrò la sua vicinanza; il vescovo mons. A. Mattiazzi e il clero di Padova organizzarono veglie di preghiera e dicevano “Lui fa trovare le cose perse, preghiamo che ci aiuti”. La reliquia fu ritrovata il 20 dicembre 1991 “ufficialmente nelle campagne vicine all’aeroporto di Fiumicino, a Roma, dove avrebbe dovuto partire per l’America del Sud.”

     Il 22 dicembre 1991 la reliquia venne riconsegnata ai frati per mano del generale dei Carabinieri Antonio Viesti. Ma la notizia del ritrovamento a Fiumicino era falsa; la reliquia era stata trovata a pochi passi dalla città, dalla quale non si era mai allontanata, e fatta ritrovare in un cassonetto dell’immondizia a Ponte di Brenta (Padova). A molti piace credere che sia stato lo stesso S. Antonio, noto per essere il Santo delle cose perse, a far ritrovare se stesso.

     Il regista padovano Carlo Mazzacurati nel 2000 ha realizzato un film intitolato “La Lingua del Santo”, ma in realtà avrebbe dovuto intitolare il suo film “il Mento del santo”: la cosa sarebbe stata meno accattivante e poi i ladri non erano dei ladruncoli improvvisati, ma appartenevano al clan della Mala del Brenta.

Bibliografia

1. V. Zaramella, Guida Inedita della Basilica del Santo: quello che della Basilica del santo non è stato scritto, Padova, Centro Studi ,Antoniani, 1996, pp.  538-541.

2. Archivio Sartori, Documenti di storia e arte francescana. Basilica e convento del Santo, volume I, a cura di padre G. Luisetto, Biblioteca Antoniana, Basilica del Santo, 1983, pp. 531-533.

3. B. Gonzati, La Basilica di S. Antonio, Ed. Bianchi, Padova, 1853, vol. I pp 95-96 e vol.II, pp. 435-437. 

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