di Gianluca Virgilio
Per una volta, in conclusione, lasciamo che sia la penna a dirigere la mano, che la volontà di affermare alcunché la smetta di sbraitare, di rivendicare, di pretendere l’attenzione del mondo. Sottraiamo la parola a qualsiasi uso, all’ossequio verso il potere politico, militare, religioso, alla facile ripetizione dell’opinione comune come alla frustrante recriminazione dell’insoddisfatto, al rancore appena sopito del deluso, dell’ingannato, del reietto.
E’ possibile scrivere una parola priva di questi connotati, una parola svincolata da un’intenzione, da un fine, una parola che sia fine a se stessa, che rifiuti di essere mezzo: clava, pistola, ricatto, paura; una parola pura? E, al contempo, è possibile scrivere una parola necessaria? Che sia simile a un evento naturale, a una conseguenza logica inaspettata che stupisca per la sua bellezza o sgomenti per la sua forza, simile a un destino inevitabile eppure imprevisto? E’ possibile scrivere una parola definitiva, oltre la quale potrebbe non esserci più nulla oppure potrebbe spalancarsi un mondo intero che ci era rimasto sempre nascosto?
La parola che scriviamo, quella che leggiamo, la parola che ascoltiamo, quella che ogni giorno si deposita nelle menti, attraversa i corpi, la parola che dirige le vite e muove gli uomini è una parola asservita e avvilita, ossessiva e tirannica, superba e presuntuosa, falsa e bugiarda.