L’importanza della pubblicazione del Labirinto Metrico di Oronzo Pasquale Macrì consiste nel fatto che si è cercato di chiarire quale fosse il pensiero alla base di un esercizio come quello labirintico letterario in un secolo, il 1700, influenzato fortemente dalla filosofia kantiana e dalle sue conseguenze illuministiche. Tanto da indurre lo studioso Gino L. Dimitri (Università del Salento) a scrivere una recensione in cui afferma che «viene da pensare che il perdurare – entro lo scenario epocale illuministico – di artifici “barocchi” come questo esempio di poesia iconica starebbero piuttosto a dimostrare il carattere paradossalmente e dinamicamente contraddittorio di questa fase della storia culturale nel Regno di Napoli. Raffinatezza combinatoria, retroterra mitologico (ma decisamente “altro” rispetto all’asettica marmoreità del neoclassicismo e, semmai, affine alle secentesche Soledades di Gongora), retorica della permutazione; e ancora metametrica compositiva, stenografia e cabbalismo crittografico: tutte queste categorie si ha come l’impressione che afferiscano più che a vezzi di un’intellettualità provinciale poco impollinata dalla modernità dell’Aufklärung, soprattutto a una sorta di fedeltà verso modelli culturali radicatissimi nel contesto dotto della Terra d’Otranto e del Mezzogiorno d’Antico Regime. Questi modelli […] rimontano ai circoli eterodossi napoletani di cui fecero parte astrologi come Matteo Tafuri, agli epigoni del cabbalista Pietro Colonna Galatino, e pure a un barocco diffuso che fu evidentemente interiorizzato al punto da sopravvivere e coesistere con le istanze illuminate» (cfr. «La Gazzetta del Mezzogiorno», 26 aprile 2004, p. 15).
Quindi anche il “Labirinto Metrico” del Macrì, composto nel 1759 e recitato il 13 agosto dello stesso anno nel Liceo di Maglie, ha a che vedere con la filosofia, tanto che il poemetto, in forma di intrigo circolare concentrico (oggi diremmo un esempio di poesia visiva), è una sorta di dedicatoria al maestro dell’autore, tale Paolino Piccinno.
L’autore del “Labyrinthus Metricus” fu un giovane prete, Oronzo Pasquale Macrì, di Maglie, oggi rigogliosa cittadina della provincia di Lecce e, all’epoca, grosso centro agricolo dell’antica Terra d’Otranto. Nel libro, il profilo biografico dell’autore è affidato ad Albina Calsolaro, la quale scrive che l’autore del componimento nacque il 30 dicembre 1738, per cui, all’epoca della composizione della sua opera, si desume avesse appena 21 anni. Siamo nel pieno delle energie giovanili di un uomo. La stessa Calsolaro ci fa sapere che il «Labirinto Metrico […] è in latino ed è la sua prima opera. Tale scritto, che lo fa conoscere negli ambienti ecclesiastici, costituisce una novità sia dal punto di vista formale che sostanziale rispetto alle costruzioni di questo tipo fino ad allora conosciute. I numerosi richiami alla mitologia latina e greca sono il segno più evidente della sua vasta erudizione» (p. 30).
Ma come si è giunti alla scoperta e ritrovamento del manoscritto? Non poche volte, accade che il tipo di ricerca che si va a fare per rintracciare qualche antico documento cartaceo o similare in ambiti che possono essere vecchie biblioteche, depositi notarili, librerie ottocentesche da secoli abbandonate, ci si trovi davanti ad un terreno quasi fosse esattamente quello che si presenta all’archeologo del territorio. Si tratta cioè di avere un certo tipo di competenza che fa sì che immediatamente ci si accorga che in quel determinato “strato” di carte alla rinfusa vi sia un qualcosa da vedere e da salvare. Così è accaduto a chi qui scrive. Mettendo ordine in una vecchia biblioteca privata del Capo di Leuca, nella parte destinata agli scarti e alienazioni, mi accorsi di alcuni fogli sciolti che mi attrassero soprattutto per il tipo di carta e per i disegni su di essa impressi. Dopo mesi di cure e attenzioni, quelle carte rivelarono il “Labirinto Metrico” di Oronzo Pasquale Macrì, più alcune altre sue carte che non avevano mai visto la luce. Fra di esse cito quelle più importanti, precisando che tutte le citazione infra, si rifanno al testo della studiosa Albina Calsolaro:
– “Discorso agli Ecclesiastici – Discorso su la vera pronunzia Latina del Nome Lucia” (1802), che tratta di «un breve trattato con il quale Macrì vuole dimostrare che la vera pronuncia di tale nome è Lùcia e non Lucìa, in quanto derivato dal prenome Lùcius» (p. 30);
– “Degli organi di Santa Cecilia – Discorso sul Cantantibus organis di Santa Cecilia al Sig. Organista D. Antonio de Donno”, sul quale discorso si precisa che «per quanto riguarda l’espressione ”Cantantibus organis”, riportata nel breviario romano nel giorno della Santa, [Macrì] afferma che sarebbe meglio dire “sonantibus organis”; sicuramente l’espressione del breviario è più bella ed elegante e rintraccia simili costrutti in diversi autori latini, quali Ovidio, Orazio, Cicerone, Plinio ed altri. L’interpretazione più ovvia, secondo Macrì, sarebbe che la santa “batteva l’organo” per elevare l’anima a Dio e cantare le sue lodi. Ma egli tenta un’altra strada. Rapporta il “cantantibus” ai cantori musici ritenendo un participio assoluto ed “organis” un ablativo di strumento e traduce: “(…) mentre altri cantavano al suon degli organi, Cecilia volgeva il suo canto al Signore (…)”; gli organi qui citati sono da intendere strumenti musicali a fiato o a corde, perché, come egli stesso dice, si deve trasferire il significato di una parola al suo tempo. Inoltre negli atti di Santa Cecilia, vissuta nel II secolo, scritti “sotto Costantino Magno o non molto dopo (…) non si fa menzione alcuna che Santa Cecilia avesse suonato l’organo”. I più antichi di questi strumenti musicali sono gli ‘Organa Hydraulica’ che suonavano a forza d’acqua e risalgono alla II metà del terzo secolo a. C., realizzati dal meccanico Ctesibio Alessandrino al tempo di Tolomeo Evergete; solo molto dopo furono introdotti nella Chiesa, per “(…) dar consonanza” al canto Ecclesiastico, da S. Vitaliano, sommo pontefice negli anni intorno al 652. Da altre fonti si sa, continua il Macrì, che nel 757 Costantino Copronimo, imperatore d’Oriente, ne mandò uno in dono a Pipino il Breve, re dei Franchi. Come si spiega dunque, si chiede [il Macrì], che S. Cecilia viene rappresentata mentre suona l’organo? Sicuramente questa rappresentazione è una licenza pittorica e quindi l’antifona, che recita “Cantantibus Organis Cecilia”, “mal’intesa ha ingannato e i Preti ed i Pittori, perché non hanno voluto por mente alla differenza che passa tra ‘l parlar de’ moderni e il sermon prisco”» (pp. 31-32);
– “Minerva o sia della Dottrina per la Costruzione”, che «dà agli scolari, sotto forma di 18 regole facile e chiare, dei suggerimenti per una corretta interpretazione di alcuni costrutti latini, citando per ogni regola, analoghe forme tratte da vari scrittori latini (Cicerone, Virgilio, Fedro, Plauto, ecc.)» (p. 32);
– “Ricerche sulla fontana di Gallipoli”, nel quale il Macrì «ritiene [che] la fontana, ai suoi tempi situata dietro la chiesa del Canneto, dalla parte del nuovo ponte, fosse stata lì trasferita nel sec. XVI. Questa fontana prima si trovava nel luogo detto “Fontana vecchia” e più anticamente “Corici”, parola di chiara origine greca, che significa Terme» (pp. 32-33);
– “Callipoli Illustrata” o “Dissertazione. Urbs Callipolitana anagramma purissimum. Lata, Pulcra Nobilis” (1806), con la quale «cerca di stabilire il tempo in cui fu fondata la città» (p. 33). Di questa opera se ne interessarono più da vicino studiosi della stessa città di Gallipoli come Bartolomeo Ravenna (1836), Nicola Maria Cataldi (1850) e, più recentemente Elio Pindinelli nei suoi studi sul Ravenna.
– “Memorie storiche dell’origini ed antichità di Maglie a richiesta del Signor Sottintendente di Gallipoli D. Pietro Viva di Galatina, nelle settembre del 1819”, nel quale scritto il Macrì dà molte notizie biografiche;
– “De Marmore Basterbino”, col quale Macrì «cerca di intepretare un’iscrizione in lingua messapica ritrovata a Vaste ed inviata al noto storico, archelogo e linguista mons. Alessandro Maria Kalefati» (p. 35).
Fin qui la storia delle opere, tutte inedite, di Oronzo Pasquale Macrì. Adesso, però, vediamo più dappresso il “Labirinto Metrico”, affidandoci alla descrizione fatta in volume da Salvatore Tommasi il quale, fra l’altro, ha tradotto il testo antico indicando per primo l’andamento del percorso della scrittura labirintico macriana. Egli scrive che il “Labirinto Metrico” del Macrì è «una figura a cerchi concentrici con due croci sovrapposte, gli uni e le altre contenenti un intreccio fittissimo di parole latine, scritte con l’accurata precisione di un antico amanuense […] composto in onore dell’illustre Reverendo don Paolino Piccinno, rettore del Liceo magliese» (p. 48).
A sua volta, Antonio Negro, il cui studio nel volume è un approfondimento tecnico di vasta portata, ci dà qualche altra notizia sulla formazione dell’autore del “Labirinto”, dicendoci che «sicuramente il maestro di Pasquale Macrì, Paolino Piccinno, nella sua formazione, sarà venuto in contatto anche lui con gli snodi culturali presenti a Napoli e da lì diffusi in Puglia dal clero intellettuale di ritorno nei paesi di origine» (p. 72). Aggiunge poi che «la costruzione del vero e proprio labirinto metrico consiste nella produzione di un lungo testo inserito in undici spire concentriche con direzione unicursale centripeta secondo precise regole di ludolinguistica legate all’anagramma» (p. 79). Interessante quanto lo studioso riesce a individuare a riguardo della struttura del labirinto. Scrive: «una disposizione grafica molto accurata ha reso possibile la tessitura di parole madre (lettura verticale) e parole figlia (lettura orizzontale) che, a seconda del punto di incontro fra parola madre e parola figlia darà vita a successivi anagrammi simili a 11 acrostici (lettura verticale delle iniziali delle parole figlie) a 17 mesostici (lettura verticale intermedia delle parole figlie), a 7 telestici (lettura verticale finale delle parole figlie)» (p. 82). Molti sono i riferimenti mitologici e culturali individuati dal Negro nel labirirnto metrico macriano, fra cui le storie riferite alle divinità olimpiche e cosmogoniche Giove, Apollo, Atena, Nemesi, Venere, Leda, Crono, Prometeo, Giapeto, Gea, Urano; storie tratte dai testi di Apollodoro, Ovidio, Platone, Pitagora.
Ma perché, in pieno Illuminismo, un giovane prete della periferia del Regno di Napoli, nell’esprimere la sua devozione al proprio maestro, ricorre ad una forma di poesia così complicata? Una risposta ce la dà Giulia Belgioioso la quale, nella prefazione all’opera del Macrì, scrive: «I labirinti metametrici trovano origine nella poesia dell’umanesimo e del rinascimento, soprattutto in quella che diventerà ‘poesia artificiosa’: ad esempio l’ “Hypnerotomachia Poliphili” (Battaglia d’amore in sogno di Polifilo) di Francesco Colonna. In questo libro s’intrecciano tradizioni diverse, ellenistiche e medievali, pagane e cristiane, e anche diverse modalità di scrittura e di lettura nella misura in cui ‘versi’ e ‘figure’ non sono indipendenti. Altri esempi sono il “De laudibus Sanctae Crucis” di Rabano Mauro nell’edizione a stampa del 1503; il “De divina proportione” di Luca Pacioli del 1509; la “Melancolia” di Dürer del 1514 […]; gli “Hyerogliphica” del 1556 […] ma anche “Le cinquième livre… du bon Pantagruel” del 1565 di Rabelais; le “Opere” di Guido Casoni del 1626 […]; “Turris Babel” di padre Athanasius Kircher (1679); soprattutto la “Metametrica” di Juan Caramuel Lobkowitz del 1663 costituisce il più clamoroso documento di poesia figurata in Italia e anche la fonte più ricca di notizie sui poeti iconoci italiani» (pp. 1-2). A proposito del “Labirinto metrico” del Macrì, la studiosa afferma: «Il componimento è […] un’esercitazione di scuola per festeggiare il maestro Paolino Piccinno […] Nonostante ciò, questo componimento deve avere avuto una circolazione, [… in esso] si intravede tuttavia quella vocazione di filologo e soprattutto di erudito che gli scritti maturi consacreranno» (pp. 8-9).
Della poetica artificiosa umanistico-rinascimentale ne parla anche Stefano Bartezzaghi in una sua breve recensione del Labirinto Metrico del Macrì su «Il Venerdì di Repubblica» (27.08.04), il quale individua in esso «un percorrimento complesso, il ritorno di certe lettere chiave. Una delle possibili dimostrazioni della moda manieristica del labirinto, applicata alla letteratura e ai giochi poetici».
L’autore del libro, Cosimo Giannuzzi, ha impiegato la massima attenzione allo studio del componimento poetico di Oronzo Pasquale Macrì. Secondo la Belgioioso, l’attrazione per questo tipo di studi è dovuta all’interesse che lo studioso ha per la metafora del labirinto. Infatti, nel suo robusto saggio, egli spiega il “Labirinto Metrico” definendolo come una figura la cui complessità «interessa sistemi, strutture, fenomeni, eventi, processi, rappresentazioni ed ogni altro aspetto conoscitivo» (p. 107).
E perciò che, partendo dalla consapevolezza di tale complessità, per lui «la conoscenza dei modelli naturali rende possibile anche il riconoscimento dei principi che stanno alla base delle forme culturali complesse» (p. 107).
«La nozione di “complessità” trova […] nel “labirinto” la sua forma culturale. Esso, sia per l’interazione degli elementi che lo costituiscono, sia per l’articolazione e diversità dei dati, racchiude un carattere imponderabile, non prevedibile del percorso che il soggetto è chiamato a compiere per non smarrirsi, raggiungere il centro e ritornare all’ingresso» (p. 109).
Quindi: «Il labirinto del Macrì è costruito secondo le tecniche dell’arte combinatoria, perché […] utilizza le tecnica ludica dell’anagramma» (p. 118) e «induce a riconoscere [in quella] costruzione […] una struttura che, obbedendo ad un percorso combinatorio, consente la formazione di un testo poetico i cui artifici linguistici, sia quelli enunciati, sia quelli taciuti, i tortuosi percorsi e la stessa forma poetica giustificano la denominazione di “Labirinto metrico”» (pp. 122-123).
Ancora qualche passo più in avanti nel suo saggio e l’autore esplicita il centro del suo interesse per la complessità, la combinatorietà, la difficoltà di percorso. Lo fa riflettendo sul componimento poetico oggetto dello studio. Scrive: «Il “Labirinto metrico” di Macrì [… è] fra quelli che fanno emergere l’aspetto giocoso, di divertimento, in sintonia con il “Labirinto metrico” di Luis Nunes Tinoco, autore portoghese del ‘600 che lo compose in onore della regina Maria Sofia Isabella. Il “Labirinto metrico” del Macrì mostra però una struttura che differisce da quella del Tinoco [… la quale] presenta una forma a scacchiera e permette milioni di possibilità di combinazioni e di direzioni di lettura» (p. 143).
Come già sappiamo, invece il “Labirinto metrico” del Macrì è del tipo a cerchi concentrici, sul modello del più famoso labirinto della Cattedrale medievale di Chartres in Francia. L’autore precisa: «Nella costruzione di Macrì la complessità riguarda la distribuzione del testo in quanto l’articolazione dei cerchi concentrici e delle false croci non mostra una relazione significativa a livello di collegamento dei percorsi e pertanto assolve solo alla funzione di tracciati per contenere il testo. La versificazione, la forma del contenuto e dell’esposizione, gli artifici linguistici sono i livelli di complessità ai quali va aggiunta la ricerca del percorso da compiere per una lettura significativa del testo» (p. 147).
E poco oltre: «L’originalità della sua costruzione è fuori discussione dal momento che non sono conosciute, finora, invenzioni letterarie con analoghe caratteristiche. Si potrebbe affermare che Macrì sia da considerare un seguace del lullismo [letterati con la passione della matematica] o un precursore degli oplepiani [matematici con la passione della letteratura] perché la sua invenzione è realizzata secondo uno schema predefinito» (p. 151).
Mi piace chiudere questa riflessione su un libro che nel Salento ha fatto un bel po’ di storia, riprendendo le parole che l’autore ha scritto successivamente in un articolo su un periodico regionale: «Mi sono servito del concetto di complessità per spiegare l’oggetto della mia riflessione sul labirinto, che è insieme immagine e luogo, situazione e gioco, mito e simbolo. In origine il labirinto è infatti riconosciuto come un luogo a forma di conchiglia, ovvero una spirale, si evolve poi in luogo di culto e in luogo vietato, in seguito diviene un modello da utilizzare per rappresentare un percorso difficile fino ad assumere un significato figurato: metafora del mondo e della vita. Ho riconosciuto una equivalenza tra labirinto e complessità perché volevo evidenziare l’esistenza di numerosi aspetti che sono in relazione fra loro in un modo non immediatamente visibile, rendendo la costruzione misteriosa, enigmatica. Ribadisco complessa, non complicata o caotica, perché nella complessità gli elementi che costituiscono una struttura non sono disposti in modo confuso ma hanno un ordine che è però nascosto, non immediatamente visibile» (cfr. «Anxa news», novembre 2004, p. 4).
[Edizioni Rovello, Milano novembre 2008]