Scrivendo ci si è resi conto poi che diveniva tangibile il rischio di passare agli occhi dei lettori per barbogi e un po’ bacchettoni eruditi che si dilettano con gusto tutto borghese a stimmatizzare il peccato e bacchettare i peccatori. Si spera di poter evitare tale rischio precisando agli stessi lettori che chi scrive non è uno storico di professione ma più che altro un letterato che dal vizio, dalla corruzione degli umani, dagli scandali di corte, dalle sottili trame che ordiscono le vite dei consimili, ancor più se altolocati, trae alimento per le proprie avide letture e narrazioni.
E veniamo alle quattro dame di cui si sono intrecciati altrettanti medaglioni.
La prima donna di potere di cui ci occupiamo è Elena (248-329), madre dell’imperatore Costantino. Siamo fra il III e il IV secolo d. C. Elena è festeggiata dalla chiesa cattolica e da quella orientale come Sant’Elena Imperatrice insieme al figlio San Costantino Imperatore. Di lei è forse poco conosciuto il passato oscuro, precedente all’unione con l’Imperatore Costanzo, quando la futura Augusta svolgeva probabilmente l’attività poco onorevole di spogliarellista nelle taverne. È invece nota a tutti la sua attività governativa al fianco dell’illustre rampollo e soprattutto di promotrice della fede cristiana. A lei si deve il reperimento di una straordinaria mole di sacre reliquie in seguito ai suoi viaggi in Terra Santa; anzi, si può dire che ella sia stata la fondatrice del culto delle reliquie che si propaga per tutti i secoli del Medioevo. Un focus si apre sulla Legenda Aurea di Jacopo da Varrazze, raccolta di agiografie ad opera del celebre frate domenicano e Vescovo di Genova, che ebbe nel Basso Medioevo una straordinaria diffusione ed è letta e studiata ancora oggi[2].
La seconda protagonista è Teodora (500-548), potentissima moglie del potentissimo Giustiniano. Anche Teodora giunge al trono da un passato poco edificante, addirittura fu una prostituta, tanto che già i contemporanei la indicavano come “l’Imperatrice venuta dal bordello”. La fonte antica più importante in questo caso è l’opera di Procopio di Cesarea, Storia Segreta, un violento pamphlet mosso da sentimenti di rancore e malanimo che fanno scrivere al suo autore il peggio che si possa immaginare sulla figura della Basilissa. Lussuriosa, spudorata, falsa, megera, approfittatrice: Procopio si profonde nei più infamanti epiteti rivolti alla propria sovrana. Non risparmia, la sua vis polemica, nemmeno l’Imperatore, che anzi viene descritto come un demonio, avido di potere e di denaro. I due coniugi regali sono dipinti come dei vampiri succhiasangue, dediti solo ad affamare i propri sudditi e a lucrare sulle disgrazie altrui. Pervertiti e corrotti, il retore si dice convinto che con Giustiniano e Teodora il genere umano abbia toccato il fondo dell’abiezione o almeno è abile a farcelo credere, perché poi la sua è un’opera che nasce da sentimenti dichiaratamente ostili per ragioni personali e in quanto tale non può essere presa dai moderni lettori come un documento scientifico del tutto fededegno. Importante, però, non solo per il suo valore letterario, ma perché ci aiuta ad entrare nell’ambiente della corte orientale con il suo apparato di paludati cerimoniali, intrighi, cospirazioni e strategie. Con tutte le donne più virtuose e nobili a cui l’Imperatore avrebbe potuto aspirare, lamenta Procopio, nel suo ritratto a fosche tinte, il sovrano scelse “quella pubblica rovina dell’umana stirpe; nessuno degli episodi summenzionati lo fece arretrare, e s’unì a donna sozza di immonde colpe”. Teodora visse nel lusso più sfrenato, non seppe rinunciare a nulla di ciò che il sontuoso apparato imperiale della corte bizantina le metteva a disposizione. Per somma contraddizione, poi, nella sua azione di legislatrice, perseguitò prostituzione ed omosessualità. “Era effettivamente bella, piuttosto piccola di statura, ma di una grazia estrema. Il viso incantevole, dalla carnagione olivastra un po’ pallida, era illuminato da due occhi immensi, pieni di sentimento, di vivacità, di passione”: così la descrive il Diehl.
Ci spostiamo nell’VIII secolo. La terza donna trattata è l’Imperatrice Irene (752-803). Con Irene il potere e la religione divengono un connubio indissolubile, lei così devota in fondo, nonostante le macchinazioni politiche e l’ambizione smisurata. L’azione politica di Irene si inserisce nell’ambito delle lotte iconoclaste che in quei secoli tormentavano l’impero d’Oriente e anche quello d’Occidente. All’Imperatrice si deve nel 787 il settimo Concilio Ecumenico, a Nicea, che condannò l’iconoclastia, e permise che le immagini sacre potessero essere nuovamente venerate. E fu proprio il merito di aver posto fine, sia pure momentaneamente, all’iconoclastia, che le valse la santificazione e mise in ombra l’orrendo misfatto perpetrato, ovvero l’accecamento e l’uccisione del figlio Costantino V per prenderne il posto sul trono. Se pensiamo alle vicende di Irene e di Carlo Magno e pensiamo che tutti sono stati fatti santi, abbiamo di che interrogarci. Donne che passavano da un letto all’altro, liberamente intrattenendo relazioni extraconiugali, e uomini che facevano dell’adulterio un habitus mentale ancor più che un modus vivendi, sono stati elevati agli onori degli altari per meriti che certo hanno poco a che spartire con i piaceri di Venere, ma appare in certi casi sconcertante che la chiesa li abbia inseriti nel novero dei santi. Doppiamente strano se pensiamo che la Chiesa, durante i secoli medievali, almeno ufficialmente, difendeva la famiglia tradizionale e il sacro vincolo del matrimonio condannando qualsiasi tipo di disordine morale, in primis l’infedeltà e l’adulterio. Durante i secoli IX-XI, l’autorità ecclesiastica imponeva strenuamente l’etica matrimoniale cristiana alle classi dominanti. La monogamia era la regola fondamentale e indiscussa del matrimonio occidentale, nonostante essa mal si conciliasse con la condotta dissoluta degli aristocratici[3]. E anche se le santificazioni di cui trattiamo in questa sede riguardano la chiesa orientale, comunque tali devozioni si propagavano anche in Occidente e la Chiesa di Roma recepiva questi santi nei martirologi[4].
L’Imperatrice Teodora indossava abiti magnificamente decorati, dedicava molte ore alla cura del corpo, era fortemente attirata dai gioielli e dalle pietre preziose, dai ricami d’oro, dai cibi più ricercati. Della sua vita scandalosa si sono presto impossessati scrittori e cineasti per metterla in scena, farne spettacolo. Si può ben dire però che Teodora si prestasse bene alla parte, perversa e carnale come era, dedita ai giochi da circo, ai frizzi e ai lazzi che dovevano allietare la sua mensa, all’esibizione di sé e all’ostentazione del potere nello sfarzoso cerimoniale che volle per la propria maestà. Ella, come tutte le imperatrici d’Oriente che seguirono, dal suo gineceo, si confermava la domina assoluta delle sorti dell’Impero. Quanto alla cura del corpo, cui Irene e Teodora erano particolarmente dedite (ancor di più Marozia ma quest’ultima almeno non è fatta santa), le nobili signore contravvenivano così a tutti i principali precetti della religione cristiana, come per esempio quello di allontanare l’eccessiva pompa; pensiamo ad un’opera come il De cultu feminarum, dell’autore cristiano Tertulliano (II-III secolo) in cui viene criticato proprio il lusso nell’abbigliamento delle donne, o anche al De exortatione castitatis dello stesso apologista, contro le seconde nozze, e in generale a tutte quelle opere minori di Tertulliano in cui viene messa alla berlina la scostumatezza femminile. I cosmetici sono considerati dalla Chiesa strumenti del diavolo. “In quell’epoca, gli uomini di Chiesa condannavano con molta durezza i cosmetici: questi non possono che dispiacere a Dio, il quale, come ben si sa, vieta di modificare il corpo umano che ha plasmato con le sue stesse mani”, scrive Duby, che cita l’opera di Stefano di Fougères, Livre des manières, composta fra il 1174 e il 1178, in cui il prelato con una spiccata misoginia presenta le donne tutte più o meno come streghe, specie le aristocratiche che “si riuniscono per preparare misture sospette, a cominciare dal belletto, dagli unguenti, dalle paste depilatorie delle quali si servono per modificare il proprio aspetto fisico, per presentarsi, da imbroglione, davanti agli uomini: le puttane si fanno vergini/ e le brutte e rugose si fanno belle”[5].
Infine, ci occupiamo di Marozia, la “superpapessa”, come la definisce Giovanni Di Capua. Ci spostiamo al X secolo, durante il Regno d’Italia, quando nel giro di pochi anni si avvicendano sul trono vari sovrani che tutti periscono di morte violenta. In un’epoca aggravata da disordini politici e morali, si staglia imperiosa la figura di Marozia (892-937), “sgualdrina impudente”, secondo la celebre definizione di Liutprando da Cremona. La donna, proveniente dalla nobile famiglia romana dei Conti di Tuscolo, fu per un certo periodo arbitra delle sorti d’Italia, certamente la più potente domina del Regno. Dedita ai piaceri della carne, dissoluta di una lussuria matrilineare, non si fece scrupoli di usare il proprio corpo per raggiungere gli obbiettivi prefissati. D’atro canto ben pochi riuscivano a resistere al suo fascino diabolico, a non cedere davanti alle sue grazie opulente, al suo cuore generoso e tenebroso. L’opera di Liutprando da Cremona che mette alla berlina i vizi del bel mondo della sua epoca è un capolavoro. Egli è autore di tre libri, Antapodosis, Historia Ottonis e Relatio de legatione Constantinopolitana che costituiscono un continuum. Si tratta di una narrazione autobiografica in cui Liutprando, forse il maggior scrittore del suo secolo, fustiga i costumi del regno italico e attacca con il furore dei satirici latini la laidezza delle donne di potere come Marozia e Villa, fra repulsione e autocompiacimento, utilizzando il registro del grottesco, che rende la sua opera ancora oggi godibile al lettore medio. “Questo sentimento del ridicolo, del grottesco invelenito è una caratteristica fortissima della prosa di Liutprando”, anche se in fondo, “c’è poco da ridere nella struggente ironia dell’amarissimo Liutprando: egli sa che il mondo è tutto una nefasta buffonata e, così, la drolerie dei suoi personaggi nasce dal magazzino della sua letteratura quasi si tratti di un ripostiglio di maschere accatastate con l’arredo di citazioni di Terenzio, Giovenale, Plauto, Marziale, Persio. L’ambiente romano dei conti di Tuscolo e dei Teofilatto gli ha insegnato a non stupirsi più di nulla”[6]. Marozia fu forte di una determinazione straordinaria, che la portò a scalare i vertici del sistema in una vera “orgia del potere”, diremmo, citando il romanzo dello scrittore Vasilīs Vasilikos (e il relativo capolavoro cinematografico di Costa-Gravas). Figlia, moglie, madre, amante dei maggiorenti, facitrice di papi, longa manus dell’establishment romano del X secolo, fu l’interprete più appassionata e genuina della cosiddetta realpolitik.
Tornando sull’aspetto della santità, diciamo che nell’Alto Medioevo si giungeva molto più facilmente alle beatificazioni in quanto non era previsto nei processi ecclesiastici un elemento pur spettacolare ma importante per la santificazione, ovvero i miracoli. Si puntava sulle buone opere compiute dai santificati in vita e sui loro meriti ufficiali, se personaggi pubblici, a favore del Cristianesimo. Fu così che i sinassari, ovvero gli antichi menologi della chiesa orientale, iniziarono a riempirsi di santi e sante da venerare per ogni giorno dell’anno. Gli atti delle passioni dei martiri, le vite dei santi e insomma tutte quelle opere devozionali che accompagnavano la vita dei fedeli nell’Impero si prestavano del resto alla facile lettura da parte di un pubblico molto interessato, non di cultura alta e facilmente suggestionabile da una certa letteratura infiorettata. Ciò determinò il grande successo dell’agiografia. Tutti questi materiali confluirono appunto nei menologi della Chiesa ortodossa e nei martirologi di quella romana. In Oriente la concezione del potere aveva qualcosa di diverso e più profondo rispetto a quella occidentale, ossia era sacrale e questo portava a riservare una sorta di venerazione verso chi deteneva il comando. Il basileus si trovava investito di un potere che veniva dall’alto e all’imperatore e all’imperatrice si doveva un’obbedienza cieca, assoluta. Per capire la sacralità del potere a Costantinopoli, basti pensare alla pittura bizantina in cui il basileus era rappresentato a immagine e somiglianza di Dio. Proprio come Dio con la mano mandava il gesto di benedizione, il rappresentante di Dio in terra, nella medesima ieraticità, fissava i propri sudditi e dava l’immagine di un dio trionfante. Le infinite icone parietali in grotte, chiese ed edifici religiosi, diffusissime anche nell’Italia meridionale, che fu terra di dominazione bizantina, trasmettevano l’idea di comando, investitura divina, maestà. E poiché a Costantinopoli diverse furono le donne elevate alla dignità imperiale, era facile che alcune di queste donne assurgessero alla beatificazione dopo la morte.
Con il movimento di riforma ecclesiastica, nell’XI secolo, dovuto soprattutto all’ordine cluniacense, si rinnovò l’attenzione per le vite dei santi da parte dei dotti monaci riformatori i quali ora dedicavano maggiore attenzione allo studio che alle attività manuali. Fiorì una cospicua produzione letteraria, l’agiografia[7], finalizzata all’edificazione dei fedeli e vennero costituiti nuovi culti di santi. Si voleva proporre, attraverso la descrizione delle biografie un po’ romanzate, dei modelli di perfezione morale, degli esempi di vita cristiana da imitare. Si pensi alla Vita Sancti Geraldi scritta proprio da Oddone, secondo abate di Cluny, in cui si proponeva come modello di santità il conte Geraldo D’Aurillac (855-909). La fame di santi nel corso del Medioevo portò ad una indiscriminata teoria di processi di beatificazione che promossero personaggi fra i più disparati e diversi fra loro. Santa, Irene di Atene, per esempio, e santa, Brigida, l’una potente imperatrice assassina e l’altra mistica e pellegrina svedese del 1300; santo, Giustiniano, imperatore genocida e spietato come tutti i regnanti, e santo Simone il Vecchio, monaco orientale ed asceta del V secolo, che condusse vita di radicali privazioni e mortificazioni e dal cui esempio derivarono gli stiliti o monaci delle colonne. Quale coerenza? Ce n’era per creare une certa confusione e destabilizzare i fedeli. “Chi è un santo?” si chiede giustamente Douillet[8]. Gli Acta Sanctorum, la grande raccolta delle vite dei santi che i Bollandisti hanno pubblicato a partire dal XVII secolo, contengono circa 3276 santi fino al 1500[9]. “La quantità dei santi non è uniformemente distribuita nei secoli medievali, anzi, i ranghi dei beati vanno rarefacendosi nel corso del tempo. Soltanto 87, appena il 3%, fiorirono nel periodo successivo al 1348. Il numero decrescente dei santi dipende soprattutto dai maggiori controlli operati dal papato sui culti locali a partire dal 1200 circa”[10].
Nel 1603, il Gesuita Heribert Rosweyde (1569-1629) prefetto degli studi del collegio di Anversa e bibliofilo, espresse ai suoi superiori l’urgente necessità di raccogliere e stampare i documenti più importanti riguardanti la storia e il culto dei santi, soprattutto vite autentiche, che sostituissero l’eccessivo numero degli apocrifi. Si voleva garantire la pubblicazione dei documenti, debitamente annotati, conservati nelle abbazie e nei santuari del Paese. Nasce così il Fasti Sanctorum quorum vitae in belgicis bibliothecis manuscriptae asservantur (1607). Dopo la morte di Rosweyde, i superiori gesuiti affidarono al padre Jean Bolland (1596-1665) il compito di proseguirne l’opera editoriale. Bolland ampliò il progetto originario, estendendolo a tutti i santi: “Sancti quotquot toto orbe coluntur”. Si sviluppa così la monumentale opera editoriale degli Acta Sanctorum, un menologio critico delle fonti agiografiche secondo il calendario liturgico romano. Ad Anversa nel 1643 apparvero i due volumi dedicati a gennaio. I tre volumi del mese di febbraio apparvero nel 1658. La prima edizione italiana fu stampata a Venezia (1734-1770); l’ultimo volume, in cui sono studiati i Santi che si onorano il 9 e il 10 novembre, è del 1925. L’opera ad oggi costa di 67 volumi per oltre 60.000 pagine relative a più di 6200 santi. Dal 1882 la Societé des Bollandistes, con sede a Bruxelles, pubblica Analecta bollandiana, Revue critique d’hagiographie. “L’opera dei Bollandisti non sempre incontrò il favore di esponenti della chiesa che videro in qualche modo intaccata l’immagine dei santi appartenenti al proprio ordine religioso e quindi l’autorevolezza del proprio abito. Un primo attacco venne dai Carmelitani Spagnoli che nel 1692 denunciarono all’inquisizione iberica i 14 volumi relativi ai mesi di marzo aprile maggio, nelle pagine che trattavano i santi della tradizione dell’ordine. La questione venne sottoposta al vaglio della Congregazione del Santo Uffizio che pose il 22 dicembre 1700 all’Indice il volume di Daneil Papebroch, Conatus Chronico-Historicus ad Catalogum Romanorum Pontificum (Propylaeum Acta Sanctorum Maii), Anvers, Michel Cnobbaert, 1685. La cancellazione dall’Indice avverrà solo nel 1900. Nella discussione settecentesca che precedette il decreto non mancò chi, come il segretario della Congregazione, il domenicano Padre Bianchi, propose l’estensione del decreto a tutti gli Acta”[11]. Il processo di canonizzazione che formalmente si sviluppa al pari di un processo penale, ossia con la presenze delle parti, “difesa”(il promotore) ed “accusa” (il cosiddetto “avvocato del diavolo”), così come oggi lo conosciamo, trae origine dalla riforma voluta da Benedetto XIV(1740-1758) nel suo De Servorum Dei beatificatione et Beatorum canonizatione, che introduce la presenza dei periti a cui compete l’onere di riconoscere se i fatti in esame hanno o meno una natura “inspiegabile rispetto alle conoscenze scientifiche” e sono pertanto definibili come “miracoli”[12].
Da allora le maglie sarebbero state meno larghe e molti meno “eletti” (ma sempre in numero a nostro avviso abnorme) sarebbero passati per “la stretta via della santità”, per dirla con Mario Spedicato[13].
Ma lasciamo ai lettori il piacere della scoperta accontentandoci, se ci siamo riusciti, di avere messo al bando ogni pruderie e di avere almeno un po’solleticato la loro curiosità sulle vite di queste “scandalose” donne di potere.
Precisiamo in chiusura di questa introduzione che il
presente libro citerà solo alcune fra le sterminate fonti esistenti sugli
argomenti in trattazione. Non si ha, né lo si pretenderebbe, alcuna pretesa di
esaustività.
[1] Non possiamo tuttavia non citare alcuni studi fondamentali sulla materia a partire da quelli di André Vauchez, La spiritualità dell’Occidente medievale, Milano, Vita e pensiero, 1978; Santi, profeti, visionari, Bologna, Il Mulino, 2000; Esperienze religiose nel Medioevo, Roma, Viella, 2003; e di Sofia Boesh Gajano, La santità, Roma- Bari, Editori Laterza, 1999; Storia della santità nel cristianesimo occidentale, Roma, Viella, 2005; Miracoli: dai segni alla storia, a cura di Sofia Boesh Gajano e Marilena Modica, Roma, Viella, 2015; Res sacrae. Strumenti della devozione nelle società medievali, Roma, Viella, 2022.
[2] I riferimenti bibliografici qui mancanti si trovano nelle note ai capitoli.
[3] David Herlihy, La famiglia nel Medioevo, in Medioevo, a cura di Franco Cardini, Milano, RCS MediaGroup Spa, 2021, p. 108.
[4] Si veda G. Philippart, Martirologi e leggendari, in Aa.Vv., Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo Latino, Volume II, La circolazione del testo, Roma, Salerno Editrice, 1994, pp. 605-648.
[5]Georges Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, Bari-Roma, Economica Laterza, 2020 (ultima edizione), p. 7.
[6] Massimo Oldoni, Il Medioevo latino, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Milano, Federico Motta Editore, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2004, p. 133.
[7] Si veda: S. Boesch Gajano, L’agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo, XLV Settimana di Studio del CISAM (3-9 aprile 1997), Spoleto, 1998, pp. 797-843.
[8] G. Douillet, Chi è un santo?, traduzione di D. Tasca, Catania, Edizioni Paoline, 1958.
[9] David Herlihy, La famiglia nel Medioevo, cit., p.140.
[10] Ibidem.
[11] Margherita Palumbo, I Bollandisti e la censura di Roma. Cinque memoriali del 1696 nell’Archivio della Dottrina della Fede, in «Analecta Bollandiana», n. 127, 2009, pp. 364-381.
[12] Josè Luis Guttièrrez, I miracoli nell’apparato probatorio delle cause di canonizzazione, in «Ius Ecclessiae», n. 10, 1998, pp. 491-529. Si veda inoltre la voce Acta Sanctorum, in https://www.treccani.it/enciclopedia/acta-sanctorum_%28Enciclopedia-Italiana%29/;https://archive.org/details/sim_analecta-bollandiana_1882_1/mode/1up; https://www.bollandistes.org/analecta-bollandiana-general/; Sofia Boesch Gajano, Dai leggendari medievali agli Acta Sanctorum: forme di trasmissione e nuove funzioni dell’agiografia, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», n. XXI, 1985, pp. 219-244; De Rosweyde aux Acta Sanctorum: la recherche hagiographique des Bollandistes à travers quatre siècles: actes du Colloque international, Bruxelles, 5 octobre 2007 édités par Robert Godding et alii, Société des Bollandistes, Bruxelles 2009, pp. 149-284.
[13] Mario Spedicato, La via stretta della santità. Studi sui processi di canonizzazione (secc. XVII-XIX), Medit Europa 19, Castiglione, Giorgiani, 2020.