Per essere pronto, in caso di altri arrivi, indosso giacca e pantaloni gommati; ed è a questo punto che dalla marina alle mie spalle giunge il boato d’una deflagrazione che smuove l’aria e mi sorprende. Ignoro cosa sia successo di là e non posso che enumerare congetture: pescatori di frodo? Lo scoppio d’una bombola? Un ordigno? Se quest’ultima ipotesi è la più plausibile, gli autori del gesto potrebbero fuggire nella mia direzione per poi eclissarsi nella pineta, ed io sarei un povero cristo nel punto sbagliato al momento sbagliato. Mi balena l’idea di allontanarmi da quel posto attraverso la collinetta che s’inerpica fin sulla torre, ma il numero di targa farebbe risalire al mio nome, collegarlo all’accaduto, essere sospettato. Mentre l’adrenalina sale e la paura, un’auto viene verso di me: è la Polizia di Stato e questo mi procura sentimenti contrapposti. I due agenti mi si avvicinano, uno dalla parte di guida, l’altro dalla parte opposta e, pistola in pugno, m’intimano di scendere. Scrutandomi da cima a fondo, mi chiedono se sono pescatore, da quanto tempo sono lì, perché sostavo in macchina. Rispondo a tutto con apparente naturalezza. Non mi chiedono di esibire documenti; a loro interessa sapere se ho sentito qualcosa. L’accaduto nel centro di S. Caterina è troppo recente per essermene scordato, quindi li informo del tremendo botto la cui onda d’urto è giunta quasi dalle mia parti e dell’eco che s’è persa sul mare. Sono credibile e vanno via raccomandandomi di non sostare a lungo in zone buie, onde evitare incontri spiacevoli con malavitosi che nottetempo s’aggirano in zona.
Il mare continua a sprigionare le sue forze. Penso al mio letto, a mia moglie, al sonno beato dei ragazzi, ma non cedo all’idea sempre più pressante di tornarmene a casa. Invoco l’alba che finalmente giunge e mostra un mare furioso. Un cordone di spuma va parallelo alla scogliera; vi galleggiano rami morti, contenitori d’ogni forma e colore, di tutto e di più: rifiuti che qualcuno ha riversato in mare e che il mare è pronto a rispedirci al cambio della corrente. Le prospettive sono niente affatto buone, tuttavia individuo un angolo un po’ al riparo e comincio a pasturare. Tiro fuori dalla custodia una Triana della Tubertini, di nove metri. Non vedo presenze di pesce in superficie, neanche di cefalotti che sono i primi a giungere, individuata una fonte di cibo; ne attribuisco la causa all’unico elemento che inquadra il mio cono visivo: il mare, grosso ancorché in scaduta. Non demordo. Mi sposto in un angolo ancor più defilato e ricomincio. La corrente è forte, do piombo alla lenza, pasturo, pasturo.
Ho perso il conto delle ore, comincio ad avere fame, mi deconcentro. Scorre la notte appena passata: il boato, i poliziotti, la paura nelle vene. Una processione di gabbiani va a nord volando bassa ed io ho sempre più fame. La voglia di tornare a casa non smette di premere, ma lo scoglio è come una ventosa e non riesco a staccarmene. Ormai i miei pensieri corrono senza bussola e non m’accorgo che la punta della canna è sprofondata in acqua: tiro una mezza salpa e poi più niente, una fottuta mezza salpa.
Sulla via del ritorno, nel centro della marina, i segni d’un attentato al bar del corso; vi ero passato pochi minuti prima della deflagrazione. E questo è quanto.