di Antonio Mele / Melanton
C’è un divertentissimo dialogo, in Questi fantasmi dell’immortale Eduardo, tra Raffaele, che è portiere di un palazzo antico e, nella fattispecie, responsabile di un particolare trasloco, e un facchino, il quale ha appena portato su, all’appartamento dell’ultimo piano (che si ritiene infestato dagli spettri), alcune suppellettili e capi di vestiario del nuovo inquilino, e si appresta a ridiscendere.
«Vado a prendere l’altra roba», dice il facchino.
«E bravo! E io? – replica il portiere, che ha una forte paura di restare solo in quella casa di fantasmi – Ma che hai, fretta? Aspetta, che adesso arriva il tuo collega, e poi torni giù».
«Ma così si perde tempo!», ribatte il facchino.
E il portiere Raffaele: «Perché, se guadagni del tempo cosa te ne fai? Lo mangi, il tempo?… E se perdi del tempo, sei ridotto sul lastrico?».
Come tanti altri, questo frammento di verace ‘napoletanità’ la dice lunga sulla tradizionale flemmatica filosofia partenopea, basata spesso, e forse sempre, su un modo del tutto speciale di vivere la vita, assaporandone – per scelta, e possibilmente – ogni attimo in tutta calma, se non addirittura con indolenza, senza affannarsi, senza agitarsi più di tanto, e senza sentire la tirannia dell’orologio che corre, e ci fa correre, tal quali al Bianconiglio di Lewis Carroll in Alice nel Paese delle meraviglie, che grida disperato: «È tardi! È tardi! È arcitardissimo!», saltando furioso di qua e di là.
A ben riflettere, viviamo oggi in un mondo sempre più smodato, dove la fretta è la nostra invisibile padrona, e anzi tiranna, che ci obbliga a fare tutto di gran corsa.