Più che tornare a riflettere su testi ed autori già da tante voci e per tante stagioni interrogati, Lucio Giannone ne esplora altri e diversi, e s’impegna a portare a nuova luce quelli che giacciono dimenticati in un cono d’ombra ai margini del canone, stretti nell’emarginazione prodotta dalle dinamiche geostoriche della sua vicenda egemonica. «Il piacere della scoperta – come egli stesso dichiara – [lo] attira di più della variazione sul tema».
In tal senso, se Giannone ha ben dimostrato quanto fruttuosa fosse la ricerca in quelle che vengono definite “le pieghe della letteratura convenzionalmente designata come minore”, come si evince dalla lunghissima bibliografia personale che chiude il volume, coloro che hanno voluto onorarlo in questo volume hanno tenuto fede al suo modo di approcciarsi alla letteratura, rendendogli così un omaggio davvero denso di “stima e affetto”. Dalla letteratura del secondo Settecento, fino a quella dei giorni nostri in questi volumi autori maggiori e minori, opere più o meno note si alternano e si combinano, componendo davvero uno straordinario mosaico della cultura letteraria degli ultimi due secoli e offrendo mirabili lezioni di metodo e passione.
L’ampiezza metodologica e cronologica dei contributi rende testimonianza della consistenza del settore e ne disegna una mappa fedele, e chi ha partecipato a questo volume ha inteso lasciare una ben viva traccia dei propri studi, donando a Lucio Giannone saggi significativi delle ricerche che più hanno caratterizzato la produzione critica di ciascuno dei contributori. Va poi detto che il nome di Giannone torna in queste pagine per quasi un centinaio di volte, bibliografia esclusa, non nelle forme della citazione per omaggio, ma nelle note bibliografiche, a testimoniare il peso vitale dei suoi studi.
Gli studi presentati si muovono lungo alcune ben determinate direttrici, tra cui emerge subito, sin dai primi tre saggi, da quello di Morace (Su Alessandro Verri romanziere, pp. 7-21) a quello di Ignacio Ramos-Gay (On fans and other stage props in the European theatre of the eighteenth and nineteenth centuries, pp.45-58), passando per quello di Fabio D’Astore («Piacere e giovare»: l’attività letteraria di Vincenzo Corrado tra culinaria e impegno didattico-pedagogico, pp. 23-44), un legame che unisce Salento, Puglia, Italia ed Europa.
Molti hanno scelto di percorrere strade che incrociano gli interessi di Giannone per la cultura meridionale, pugliese e salentina in particolare. I saggi di Fabio D’Astorre su Vincenzo Corrado, di Annalucia Cudazzo (Un «verso che gioca con la morte». lettura di Morte per mistero di Vittorio Pagano, 795-815), di Andrea Scardicchio (Un fecondo discepolato ottocentesco. Monti e l’allievo greco Mustoxidi, pp.59-77), di Vincenzo Bianco (Vincenzo Ampolo epigrammista: le Macchiette e un inedito, pp. 237-256), di Steven Soper (Scattered friends and collected memories: the unpublished letters of fellow prisoners to Sigismondo Castromediano, pp. 95-124) e di Marco Leone (La narrativa verista di Francesco Curci, pp.133-150) hanno tutti il carattere di far dialogare aspetti, episodi e personaggi della cultura pugliese e salentina con la tradizione nazionale e offrire opportunamente un respiro internazionale a tali episodi. Così, ad esempio Antonio Prete si occupa della traduzione di Valèry ad opera di Oreste Macrì (Oreste Macrì e il cimitero marino di Paul Valéry, pp.617-626) e Irene Romera Pintor di un Vittorio Bodini reso in spagnolo (Correo español entre bastidores: Laura Volpe y Vittorio Bodini, pp. 685-702), mentre la figura e l’opera di Raffaele Carrieri viene illuminata da Simone Giorgino alla luce dei contesti europei e dei suoi itinerari spagnoli («Bell’azzurro dei giorni facili». incontri e itinerari spagnoli nella poesia di Raffaele Carrieri, pp.739-751), cosa che accade anche per la traduzione di Bagheria di Dacia Maraini, analizzata da Juan Carlo de Miguel y Canuto (Bagheria, di Dacia Maraini, in spagnolo: storia di un libro, pp. 903-919). Bodini ritorna anche nel saggio di Mirko Grasso (Un poeta, un regista e il barocco leccese: Vittorio Bodini e Antonio Marchi, pp.703-722) che, col richiamo ai rapporti con Attilio Bertolucci e Antonio Marchi, indaga i confini tra cinema e letteratura, nello sforzo di aprire ulteriormente gli spazi letterari alle arti sorelle, cosa che avviene anche nel saggio dedicato da Clara Allasia (Pir meu cori alligrari: un travestimento inedito e sconosciuto di Edoardo Sanguineti, pp. 847-864), che recupera l’esperienza performativa che Edoardo Sanguineti produsse attorno al mito federiciano nel 1986, in un fecondo colloquio tra Giorgio Albertazzi e Raffaele Nigro, a margine dello spettacolo Federico II reale e immaginario, tenutosi a Barletta. Sulla linea di apertura ad un contesto europeo della cultura del Mezzogiorno si muove anche Franco Vitelli, nello studio della giovane poesia di Alfonso Guida, che dai contesti regionali conquista ampie vedute critiche (In fondo al baratro una rosa. Sulla poesia di Alfonso Guida, pp. 991-1007). La Puglia raccontata da Pasolini, analizzata da Ricciarda Ricorda («Le Puglie per il viaggiatore incantato»: immagini pasoliniane, pp.723-738), è una terra attraversata dal Gargano al Salento, cogliendo la persistenza dell’ossimoro di bellezza e dignitosa povertà, “terra che non smette di incarnare una promessa utopica di autenticità e di energia originaria” (p. 738).
Tale interesse però si giustifica anche per il ruolo di cerniera che l’Italia e nello specifico la Puglia e il Salento hanno avuto nel legare le sponde del mar Mediterraneo e nel rappresentare una cerniera tra popoli e culture. Infatti, emerge l’importanza della classicità e della grecità, in particolare, come quando Aldo Morace, riferendosi al Verri romanziere, parla di una “mistione di grecità internazionale e di paesaggio mediterraneo” (p. 9). E simmetricamente, il penultimo intervento del volume, a cura di Antonio Sichera (Il mito tra antico e moderno per un’ermeneutica dell’Elena di Euripide, pp.1043-1054), torna sul mito fondativo del Mediterraneo e dell’intero Occidente, con un salto da Euripide a Simon Weil, con quella passione civile che non deve essere mai disgiunta da questi studi, rappresentando la figura del naufrago in modo archetipico perché, afferma, “il naufrago e lo straniero sono stirpe sacra, inviolabile (asylēton)”. Non si può mettere loro le mani addosso, non possono essere spogliati” e perché “lo straniero naufrago che bussa alle porte delle nostre città è sacro e inviolabile in forza del puro manifestarsi del suo corpo lacerato e battuto” (p. 1047). La questione emerge forte anche nel saggio di Maria Teresa Pano (Persistenze mediterranee e modulazioni barocche nella scrittura saggistica di Vincenzo Consolo, pp. 837-845) in cui l’esperienza narrativa di Vincenzo Consolo fa emergere appunto la figura di Ulisse, “archetipo dell’uomo moderno nonché figlio di un grande mare che, nei nostri giorni ancora e senza tregua si è trasformato in lago d’indifferenza e infine in cimitero d’ossa” (p. 843), un tema su cui, precocemente, si alzò la voce dello scrittore siciliano. E il saggio di Flaviano Pisanelli su Le poetiche italofone contemporanee e l’indeciso identitario: tra erranza, corpo e parola (pp. 1025-1042) fornisce una definizione delle scritture, affermatesi a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, “transnazionali che trovano nell’esperienza della migrazione, dell’erranza e dell’esilio il loro fondamento comune” (p. 1029).
In questo senso è significativo che il nome che forse torna più spesso in questi studi sia quello di Ulisse o Odisseo, che finisce per essere in qualche modo l’archetipo dell’uomo moderno e della sua ricerca di identità e di patria. Si pensi che il nome di Ulisse o di Odisseo ricorre per ben 215 volte in questo volume, proprio a dimostrare la forza che questo archetipo ha avuto e ha per noi e la nostra cultura. Nelle pagine che Gouchan ha dedicato a Quasimodo (Una geografia patetica e poetica: l’isola di Salvatore Quasimodo, pp. 535-553) emerge chiaro questo richiamo all’eroe greco, con la ridefinizione dei “contorni mitici e solitari dello spazio insulare” (p. 538), che rendono l’opera di Quasimodo testimonianza viva di una ricerca delle origini che si approfondisce anche nel contributo di Granese (Continuità e discontinuità nella poesia di Quasimodo, pp. 555-570), in cui la figura mitica dell’Ulisse della tradizione già foscoliana presente ne L’uomo di Eschilo si invera nella figura tragica dell’Oreste che è “già pensoso e che già dubita che si possa raggiungere una giustizia pacificatrice” (p. 569). Pietro Gibellini recupera e studia l’Ulisse dimenticato di Emilio Girardini (Un Ulisse dimenticato: l’eroe pacifista di Emilio Girardini, pp. 301-313), ripercorrendone le fortune a cavallo tra Otto e Novecento che vanno da Graf a Pascoli, a Gozzano, fino a D’Annunzio e mettendo in luce questo Ulisse che si fa guidare “dall’impulso di compiere un’azione di pace e di civilizzazione presso altri popoli”, un eroe che alle soglie della deflagrazione della Grande Guerra intende farsi “apostolo della pace, dell’amore e dell’inutilità della guerra” (p. 306). L’Ulisse “triestino” poi studiato da Marina Paino (Saba, Ulisse e il viaggio del mare, pp. 571-590) nell’opera di Saba è più colui che parte che colui che torna, è un Ulisse che nel Canzoniere diventa metafora, anche autobiograficamente parlando, dell’uomo alla ricerca “di una fuga libertaria costantemente vagheggiata nelle trame della raccolta, con un anelito verso ciò che sembra interdetto che rievoca in più luoghi testuali proprio il fantasma ulissiaco” (p. 572). E ancora nel successivo saggio di Giuseppe Palazzolo (1947: il ritorno di Ulisse, pp. 591-606) il ritorno di Ulisse viene seguito nell’opera di Pavese, che riporta quel mito alle sue origini, a partire da quanto Debenedetti aveva affermato a proposito del divorzio consumatosi tra l’uomo e il suo destino, “tra l’epica della realtà… e l’epica dell’esistenza” (p. 592). Ettore Catalano, ancora analizzando Le streghe di Pavese (Lettura del dialogo Le streghe di Cesare Pavese, pp. 607-615), torna sulla dimensione tragica che il mito assume nella modernità, in cui “la prospettiva creativa e memoriale di marca esiodea rappresentava ancora una rivitalizzazione utile a superare … la cupa violenza della guerra in nome dei “valori” di una cultura che a quella tragedia aveva collaborato, senza comprenderla” (p. 615). Marco Sirtori (Bontempelli e il viaggio. Gli scritti italiani di odeporica, pp. 519-534) parte dall’esperienza di viaggio raccontata da Bontempelli nelle prose di carattere odeporico in cui il filtro dello sguardo genera “nuove, inedite prospettive del mondo” (p. 530) che rifuggono dalla rappresentazione di tipo “turistico” delle realtà descritte.
Analizzano le scritture dell’esilio alcuni importanti saggi, come quello di Giovanni Albertocchi (L’eterno femminino in alcuni diari di esiliati italiani in Spagna dopo i moti risorgimentali del 1820-21, pp. 79-94), mentre Giuseppe Lupo (A proposito di un fuoriuscito. Giovanni Pirelli scrittore, pp. 752-761) ricostruisce le contraddizioni di un personaggio che attraversa in modo originale il XX secolo. Proprio il confronto con la storia caratterizza l’analisi dei Fantasmi dell’impero che propone Daniele Comberiati (Il «cuore di tenebra» di una nazione. Narrare I fantasmi dell’impero di Cosentino, Dodaro e Panella, pp. 979-990), studiando il caso emblematico di una scrittura a più mani che descrive una tragedia “collettiva”, come quella del colonialismo italiano, mentre Cristina Benussi in Giovanni Comisso e i suoi giorni di guerra (pp. 491-504) studia il nesso tra storia, memoria e letteratura uno spazio narrativo “ove si fondono la realtà vissuta e la percezione che ne ha nel momento in cui scrive” (p. 495).
La letteratura, in questi saggi, non sfugge dunque al rapporto con i territori in cui matura, come nel saggio di Rino Caputo dedicato ad Antonio Pennacchi (Una (prima) considerazione su Antonio Pennacchi tra palude e fabbrica, pp. 897-901) o ancora nell’analisi del dialetto di Graziella Semacchi Gliubich, che si apre a più complesse esperienze culturali, proposta da Giorgio Baroni (Graziella Semacchi Gliubich poetessa non soltanto in dialetto, pp. 921-944). Lo studio di Giovanni Tesio sui Sillabari di Parise (Goffredo Parise, un percorso verso e dentro I Sillabari, pp. 865-882) prende proprio spunto dal rapporto dell’autore con quelli che definisce “i paesaggi familiari” entro un tempo che “scorre come un flusso senza ritorno” (p. 874) e che riporta ad una realtà sospesa tra presente e fiaba. Il saggio di Luigi Scorrano Andare Per le vie di Giovanni Verga (pp.125-131) si muove da un titolo per ampliare il discorso alla natura dei personaggi verghiani e al rapporto con la tradizione. Un lessico vero e proprio de Le città invisibili è proposto da Ajello (Alcuni ghiribizzi sulle città invisibili di Italo Calvino, pp. 817-836), ricostruendone in modo originale i temi portanti, alla luce del dialogo con la tradizione letteraria. Il realismo dell’irrealtà. La «città nera» del romanzo contemporaneo (pp.1009-1023), studio offerto da Elisabetta Mondello, propone un’interessante riflessione sul noir italiano degli ultimi anni, con uno sguardo rivolto al contesto europeo ed extraeuropeo, che finisce per riflettere anche sui problemi indotti dall’immigrazione. Su questa linea, a cavallo tra romanzo e reportage, si situa l’opera di Luigi Compagnone, analizzata da Paolino Nappi («Una mamma dalle mille pesanti mammelle». Rileggere Matercamorra di Luigi Compagnone, pp. 883-896).
Il senso della tradizione, così caro a Giannone, emerge ancora nel saggio di Pasquale Guaragnella (Dalle maniere di antico regime a una ritualità disformata. epilogo di «conversazione» e «giuoco» ne La disdetta di Federico De Roberto, pp. 279-300) che analizza l’opera di De Roberto, muovendo da Castiglione e Della Casa, nella ridefinizione moderna di una civiltà del dialogo e della conversazione. Emilio Filieri (Uno il core, uno il patto. Un Carducci per Croce, pp. 401-414) torna così su un Carducci ben presente in questa silloge per mettere in evidenza il nesso inscindibile che unisce critico e poeta, cosa che emerge anche nel saggio sugli studi carducciani di De Robertis ricostruita da Sandro Gentili (Gli studi carducciani di Giuseppe De Robertis, pp. 387-399) ricompone in modo ampio una importante stagione della critica letteraria. Il denso contributo di Bepi Bonifacino (Madri novecentesche. tra Pirandello e Bontempelli: primi appunti per un percorso tematico, pp.451-470), tra i molti che tornano sull’opera di Pirandello, come ad esempio quelli di Merola (Ritorni: I vecchi e i giovani di Pirandello, 331-356) e di Pupino (La verità e la finzione. Uno scorcio di Pirandello, pp. 357-369), torna a proporre una riflessione che è ben più di un primo appunto, come recita il titolo, per porre in maniera problematica la questione del nesso vita/morte attraverso un raffronto tra Pirandello e Bontempelli che mette in luce l’importanza della dimensione temporale attorno al tema della rappresentazione delle madri, traendo origine dall’affermazione di Bodini per cui “Il tempo è l’unica cosa che gli uomini abbiano veramente creato”, mentre Mario Sechi (Realismo e avanguardia sommersa nella narrativa degli anni Trenta, pp. 471-490) amplia lo sguardo alle avanguardie narrative degli anni Trenta, riflettendo, ben oltre il taglio didattico annunciato, sul nodo rappresentato della cultura del ventennio e sulle sue problematiche aperture ai contesti internazionali, in un momento in cui “il circuito della produzione e del consumo culturale non solo è animato e condizionato da una acuta disomogeneità sociale” (p. 475), ma non può più servirsi dei corpi intermedi della società. Un nodo, quella della cultura letteraria del Ventennio fascista, che ritorna nel saggio Il romanzo postumo di Guido Da Verona. Storia della manipolazione di un inedito (pp.437-449) di Enrico Tiozzo. Caterina Verbaro nel saggio La stanza della madre. la rappresentazione del congedo nella poesia di Elio Pecora (pp. 945-962) presenta, ripercorrendo la relazione con la madre, “la rappresentazione e l’interrogazione del limite tra vita e morte, un condensato di quei motivi esistenziali propri della poesia di Pecora” (p. 946).
Nel saggio dedicato a L’ultimo Piacere. Appunti per una lettura ironica del primo romanzo dannunziano (pp. 257-277) di Srecko Jurisic, il romanzo, posto al limite della prima produzione di D’Annunzio, viene analizzato alla luce dei toni ironici e autoironici che lo caratterizzano, “la cui trama, infatti, se riassunta è fortemente ironica perché mette in evidenza la superficiale infatuazione che l’immaturo amatore scambia per amore e che porta all’ironico finale” (p. 267). I toni umoristici, invece, sono indagati da Andrea Gialloreto nel saggio «Effetto Sterne» e forme dell’umorismo ne L’uovo di Colombo di Roberto Barbolini (pp. 963-967), da cui emerge il rapporto di Barbolini con una tradizione che affonda le proprie radici fin nelle origini della modernità, da Tassoni a Rabelais. Elena Porciani nel saggio Romanzo del piccolo Bepi. Un racconto (ancora) dimenticato di Elsa Morante (pp. 505-518) recupera un testo poco noto della scrittrice, per mettere in luce i temi topici della scrittura morantiana che emergono già in quest’opera giovanile.
Nei saggi di Attilio Motta (Un inatteso debito poetico: postilla su Risi e Nievo, pp. 781-793)) e di Angelo Colombo (Un tirocinio drammaturgico alla prova della radiofonia: Dario Fo e i monologhi del Poer nano, pp. 763-779) emerge un interesse per il rapporto tra letteratura e mezzi di comunicazione che, se nel primo caso, si sofferma sulle rappresentazioni del Risorgimento, nel secondo finisce per proporre interessanti riflessioni di ordine filologico, su un testo di grande interesse e non ancora debitamente studiato.
Il saggio di Giulia Dell’Aquila (La «metrica del volo»: Sinisgalli e Leonardo da Vinci, pp. 661-684) coglie il nesso tra poesia e cultura scientifica, anzi la necessità di un connubio tra queste due dimensioni a vantaggio di ambedue, mentre Carlo Santoli (Betocchi, poeta dell’oltre, pp. 641-660)si spinge ad analizzare lo spazio del misticismo in una poesia che si fa preghiera. Le preziose riflessioni di Beatrice Stasi («Quello studioso del resto rispettabilissimo»: Svevo, il dottor Ry e la psicanalisi, pp. 371-386) condotte su materiali sveviani inediti permettono di approfondire il ruolo della psicanalisi e la sua difficile accettazione nel contesto italiano. Gli studi di Luca Clerici su I campioni della divulgazione (pp. 165-189), e in particolare su Mantegazza e il gruppo di intellettuali a lui legato, mostra come la scienza divenga ad un certo punto una sorta di divinità che induce una “posizionamento fattivo nel mondo contemporaneo di questi scrittori nuovi, in grado di incidere sull’opinione pubblica in modo propositivo ed efficace” (p. 167). Il saggio di Pietro Sisto sul tarantismo (Il “morso oscuro” della tarantola fra Otto e Novecento, fra letteratura e scienza, pp. 213-236)ricostruisce proprio il passaggio degli studi su questo fenomeno da una dimensione mitologica ad una scientifica e antropologica, a cavallo tra XIX e XX secolo. Clelia Martignoni (Per uomini e altri animali di Ugo Bernasconi: un caso di studio, pp. 415-436), ripercorre la fortuna e la sfortuna critica dell’opera di Ugo Bernasconi, uno dei “minori” che fanno capolino in questo volume che è, anche da questo punto di vista, un omaggio agli studi di Lucio Giannone e alla sua idea per cui il valore di tali classificazioni viene assunta in tutto il suo senso problematico, come nel caso di questo scrittore “eccentrico”.
L’affermazione di una dimensione pedagogica della letteratura, analizzata da Giuseppe Langella mettendo a confronto Pinocchio e Cuore (Pinocchio vs Cuore. Pedagogia dell’esempio o esperienza educativa, pp.191-212), in un’ottica in cui Collodi presenta una strategia educativa basata su errori e cadute che si contrappone per molti versi all’educazione istituzionale di De Amicis, è un altro aspetto che emerge in molti saggi, come in quello di Ilaria Crotti dedicato alle maestre presenti nell’opera di Ada Negri (Immagini di maestre nella narrativa di Ada Negri, pp.315-330).
L’apertura della modernità letteraria verso altri territori è evidente nei frequenti richiami al nesso con il giornalismo, che animano ad esempio le pagine che Raffaele Giglio dedica a Matilde Serao (Ancora su giornalismo e letteratura. «Immaginazione, ragione, sentimento»: le vie per una scrittura realistica della Serao, pp. 151-164), mettendo in evidenza “come il giornalismo abbia contribuito alla diffusione di una scrittura realistica nel prodotto letterario di Matilde Serao” (p. 152) e della sua generazione, pur nella evoluzione dei rapporti tra letteratura e giornalismo che via via si incrinano e rispetto ai quali l’episodio, riportato in maniera molto gustosa e significativa nel saggio di Franco Contorbia (Benedetto Croce, la forma intervista e un mancato incontro con Indro Montanelli, pp. 627-640), della mancata intervista di Montanelli ad un vecchio Benedetto Croce è quantomai significativo.
Il quadro, parziale e frammentario, di questo volume che ho cercato di presentare rende solo in parte l’idea dell’ampiezza e della complessità di questo vero e proprio percorso che è possibile intraprendere nella letteratura moderna e contemporanea, ma un viaggio altrettanto lungo e complesso è possibile intraprendere leggendo la lunghissima bibliografia degli scritti di Lucio Giannone, oltre trenta fittissime pagine che rendono una forte testimonianza del “metodo” e della “passione” da lui posta nei suoi studi.
[In “Critica letteraria”, a. LII, fasc. II, n. 203/2024, pp. 415-423]