La notte è buia, ma buia buia. Sul canale d’Otranto, lontane luci vibrano. Ho due torce, memore d’un ‘incidente’ dell’anno prima (ne rimasi senza e dovetti aspettare l’alba; le esperienze del passato servono, eccome). Qui, sotto costa, da notizie avute, sarebbe pieno di occhiate, ma il mare è mutabile e una volta può non essere come l’altra; infatti è piatto e per la pesca alle occhiate manca l’elemento principe: la spuma. Nondimeno, inizio le operazioni di rito. Al primo lancio, noto che la corrente è forte e non tira dritta: prospettive azzerate, fauna assente, e non c’è perizia che tenga. Passano le ore senza che accada nulla e la libido si placa; continuo a sperare che muti vento e mare, ma via via mi convinco che la nottata è persa e non sarebbe la prima volta. Stessa cosa per l’amico che mi sta vicino di cui onoro la memoria in questo breve racconto e ne custodisco il ricordo. Prendiamo un caffè caldo (Fernando lo porta sempre). La scogliera è spettrale e noi, fuggiaschi, abbiamo perduto le tracce del tempo; il chiarore aurorale è forse di là da venire e restare qui sarebbe fuori da ogni logica, ma non m’azzardo a dire niente. Poi una voce rompe il silenzio: “Che facciamo?”. L’interrogativo di Fernando nasconde una dichiarazione di resa e ne colgo il senso: non vorrebbe sperperare quel che resta della notte ed io, sempre inarrendevole sul mare, sono pronto ad abbandonare questa costa sperduta cui, da folle, ho sacrificato la notte. Da folle, ma la mia follia è un qualcosa che muore e si rinnova, come la Fenice, e domani avrò già scordato questo mare che s’è preso beffa di me, di noi, e, ricaricato, programmerò altre ‘imprese’.
Prendiamo la via del ritorno, amareggiati per non aver sentito una sola toccata. Superiamo senza danni le difficoltà del percorso. Sull’asfalto, sospiri di sollievo; nell’oscurità, filiamo. Alle tre e trenta entro in casa, ma l’epilogo deve ancora arrivare. Le solite accortezze di tutte le volte che torno di notte e i miei dormono; mi metto a letto piano piano, quando: “ti cercano i carabinieri”, dice lei con voce assonnata. Taccio, sicuro che l’espressione rientri in un contesto onirico, trattengo quasi il respiro, attendo, penso: “E se non sta sognando?”. Nella mia vita una volta e mai più ho avuto problemi con la giustizia, per via d’ una mia lettera pubblicata su ‘Salento Scuola Snals’. Questione già chiusa. Ma perché i carabinieri? Scavo nel recesso, cerco fatti o indizi che possano in qualche modo giustificarne la presenza, ma non ne trovo. E allora? Un’azione di terzi a mia insaputa? E per quale motivo? La mente s’arrovella. In camera c’è solo quel sibilo curioso che emettono le sue labbra dischiuse. Sono certo che dorma e mi rassereno. Ma ecco sul più bello che irrompe: “La preside, i carabinieri, ti cercano”. Accidenti, è sveglia e lucida, altro che sogno! Comincia a raccontarmi l’odissea della sera: telefonate a breve distanza l’una dall’altra, di Marinaci prima e di De Marco poi, colleghi che la scongiurano a ché mi rintracci e le spiegano le ragioni: la Preside ha fatto un sopralluogo alle dieci di sera e riscontrate, a suo dire, delle anomalie, dispone di riconvocare quei colleghi allontanatisi ad operazioni di scrutinio ultimate; fa telefonare ai carabinieri di vari paesi, affinché rintraccino i docenti assenti, dispensa sonore reprimende….. il finimondo e tutto per una pretesa demenziale (ricordi Maurizio?). Dov’ero io, senza telefonino, neanche con i bengala mi avrebbero scovato. Neanche con i bengala.