Quella luce di Caravaggio che rappresenta il mistero

Poi a un certo punto si incontra un’opera che è anch’essa  un miracolo, compiuto da un pensiero e una mano d’uomo, questa volta.  E’ “L’Incredulità di San Tommaso”: uno dei miracoli di Caravaggio. Quattro figure  su uno sfondo completamente spoglio. Un quadrifoglio composto dalla disposizione delle loro teste.  Un fascio di luce che piove da sinistra a destra: quella luce di Caravaggio che è più vera della vera luce.  Tommaso che   tocca con un dito la ferita del costato di Cristo. Un chiaroscuro che si spande sulla sua fronte aggrottata. Gli altri due apostoli osservano il gesto.

Caravaggio si confronta con l’estremo, ancora una volta. Conduce la condizione del sovrumano, del meraviglioso, in quella dell’umano, del reale, trasforma l’incredibile in dimostrazione, l’incomprensibile in consapevolezza, l’astrazione in concretezza. Quelle quattro figure sono reali, vere. Una di loro proviene dall’eterno, dall’altrove, ma si fa ancora umanità ad un tempo sofferente e serena, rappresentazione che annulla il vuoto dell’incertezza generato dal mistero. L’assenza diventa presenza. Si fa volto parola ferita. Tommaso crede quando ritrova l’uomo che ha conosciuto, quando può avere la prova della sua esistenza. Tommaso è  uomo che riconosce l’uomo. Chissà se il suo non credere al racconto dei compagni non celasse il desiderio inconscio di rivedere quell’uomo, di provocarne il ritorno.

Michelangelo Merisi glielo riporta. Lo colloca in uno spazio, in un tempo. Ma con una luce che conferma la sua provenienza dall’eterno. E’ quella luce che conferma il mistero. Quella luce intensa e discreta. Quella luce dice che dal mistero tutto ha principio e che con il mistero tutto si conclude. O ricomincia. 

Cristo guida la mano di Tommaso verso la sua ferita. Tommaso scruta quel corpo. Il suo non è uno sguardo di stupore. E’ uno sguardo che si protende alla conoscenza. E’ analitico. Affondato nel particolare. A Tommaso interessa la ferita, perché è quell’elemento che dimostra l’appartenenza alla terra, all’umano. L’appartenenza all’umanità è testimoniata dal dolore o dai segni lasciati dal dolore. Tornando nel mondo l’uomo si presenta con le ferite che il mondo gli ha procurato. La ferita è la sintesi di tutta la storia di quell’uomo. Neanche gli altri due apostoli mostrano meraviglia. Forse la meraviglia è ormai superata. Adesso vogliono conoscere. Vogliono comprendere. Anche loro

Tommaso aveva dubitato. Ma è dal dubbio che comincia la ricerca che porta alla scoperta delle verità, al plurale. Lui rifiuta di credere senza che quello che gli si dice venga dimostrato. Il suo è un atteggiamento scientifico. Vuole vedere. Il racconto non gli basta: il racconto può essere finzione, parziale verità, verosimiglianza ma non verità. Tommaso vuole la verità. Lui è un uomo della strada. Forse fa il pescatore. Non ha categorie di pensiero complesse. Non ha arroganze. Probabilmente percepisce che alla complessità di quel mistero di un uomo che risorge e che ritorna tra coloro che ha avuto per discepoli e compagni, ci si può accostare soltanto con l’umiltà dell’uomo della strada che dice non ci credo se non vedo. Se non avesse avuto quel dubbio non avrebbe potuto compiere la sua esperienza di conoscenza. Non è un’esperienza individuale; è condivisa. Gli altri due apostoli sono lì, coinvolti in quell’esperienza attraverso l’osservazione.

Anche loro guardano il corpo del Cristo, la sua ferita. La sua storia. Certo, si potrebbe dire che la sua storia già la conoscevano, che ne sono stati protagonisti. Però si può dire anche che la conoscevano  solo fino al punto in cui il Cristo muore. Quello che accade dopo è il mistero di cui loro non fanno parte, di cui nessun uomo fa parte.

Con la sua opera Caravaggio rappresenta il Maestro che dà al discepolo l’insegnamento più forte. Cristo scosta la tunica e mostra al discepolo la ferita. Lo libera dal dubbio. Gli dà in dono la possibilità di verificare, di conoscere.

Il Tommaso di Caravaggio è una stratificazione di senso che richiama innumerevoli interpretazioni.  E’ metafora di  una terrestre profondità che aspira al cielo e allo stesso tempo della rivelazione che l’assoluto del cielo fa dell’essenzialità del suo segreto.    

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 31 marzo 2024]

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