di Antonio Devicienti
«Le opere interrogano noi» (Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le Lettere, Bagno a Ripoli 2019, pag. 370) scrive laconicamente Parmiggiani; in realtà è un’affermazione radicale, perché pone sia l’artista sia ognuno di noi davanti all’opera non in posizione di (come si dice con orribile espressione) “fruizione” o di “godimento estetico”, ma di dialogo non sempre pacifico o sereno: l’opera interroga i nostri limiti, la nostra mortalità, la nostra stupidità, ma pretende anche che reagiamo al suo interrogare dispiegando tutta la nostra intelligenza, la nostra passione di viventi, la nostra sensibilità. Scrive il poeta francese Claude Royet-Journoud che “Il nostro è un mestiere d’ignoranza” , intendendo dire che l’opera (ivi compresa la scrittura, la poesia) sa più di noi e il nostro inseguire l’opera è, anche, una serie più o meno grande di tentativi, molti falliti, altri approssimativi, un inoltrarsi nel buio che solo l’opera sa rischiarare.