La “Macennulla” nel filone del giornalismo umoristico di Terra d’Otranto

Cosa potrebbe dire di veramente nuovo, allora, lo storico della letteratura, premessi questi dati informativi, a proposito della Macennula? Forse si dovrebbe sforzare di contestualizzare la sua nascita e il suo sviluppo, in primo luogo, e poi, secondariamente, cercare di coglierne lo specifico linguistico-letterario, se davvero esiste.

Contestualizzare la Macennulla vuol dire sottrarla un po’ alla sua dimensione municipale, che pure costituisce la parte prevalente, come è ovvio, della sua identità, per proiettarla su un livello più generale. Individuarne le presenze letterarie serve, invece, a lumeggiare un suo aspetto non secondario, sebbene quella della Macennula sia spesso una letteratura un poco dilettantesca e feriale: il che non deve sorprendere, dal momento che il giornale copertinese è importante soprattutto come documento antropologico e sociale.

Contestualizzazione. Il giornale nasce nel ’45, dunque alla fine della guerra e all’inizio del secondo dopoguerra. Nasce anche come espressione di riguadagnata libertà dopo l’oppressione del regime fascista, come è espressamente dichiarato nella Premessa pubblicata sul primo numero, interessante perché traccia alcune linee identitarie e programmatiche che dimostrano una certa consapevolezza da parte dei suoi fondatori: l’attenzione al “folklorismo ambientale” e al tema delle tradizioni popolari e la volontà di fare satira nel senso oraziano, cioè in un senso lieve e senza la gravità biliosa di un sarcasmo violento (al modo della poesia di Tirteo e di Lucilio). Riferimenti agli autori classici a parte (per l’altro per nulla irrilevanti in un giornale popolare) e preso atto che questa intenzione di una satira morbida verrà presto disattesa, la Premessa è importante perché precisa l’ideologia del periodico, che nelle intenzioni nasce come “ricreativo”, impolitico e super partes, ma che nei fatti si trasforma in un giornale di vera e propria satirica politica, erga omnes beninteso: ma si sa che l’equilibrio perfetto è prerogativa soltanto del Salomone biblico, non degli uomini normali, e, dunque, neppure di quegli uomini che hanno pubblicato la Macennulla per tutti questi anni.

Notevole è che questa identità a-politica sia rivendicata, nella Premessa, in contrapposizione a due altre testate coeve, l’Unione proletaria e La Democrazia del lavoro, contrassegnate, al contrario, da un fortissimo impegno politico-civile. È un dato che ci riconduce al quadro più generale della pubblicistica del secondo dopoguerra in area salentina, in cui anche la Macennulla si inserisce: una pubblicistica esplosa dopo la desertificazione dell’era fascista e il cui momento d’oro non ha pari, in quel periodo, con altre zone d’Italia, anche per il fatto di ricordare un altro momento d’oro della storia della pubblicistica di Terra d’Otranto, quello dell’era immediatamente post-unitaria. Come ha evidenziato nei suoi studi Donato Valli, nel secondo dopoguerra la pubblicistica locale ebbe, infatti, precise caratteristiche e fu attraversata da specifici filoni, che riprodussero in periferia i grandi modelli di quella nazionale (non si dimentichi che nello stesso anno della Macennulla si fondavano in Italia giornali di altissimo spessore politico-culturale, come Belfagor, Il Politecnico e Comunità, solo per fare tre nomi monumentali). Il primo è un filone politico-sindacale, insorto con la ripresa dell’azione dei partiti politici e delle corporazioni, dopo la fine del regime (al quale appartengono anche l’Unione proletaria e La Democrazia del lavoro, citati nella Premessa); il secondo, ugualmente significativo, è a carattere tecnico-aziendale, ma con significative aperture culturali; e il terzo, infine, che ci interessa da più vicino e che fu però nettamente minoritario, è quello satirico-umoristico (in lingua e in vernacolo), sorto a imitazione del giornalismo umoristico di secondo Ottocento e primo Novecento (la serie dei Don Ficchino, Don Galeazzo, Don Limone, Don Ortensio ecc). Nel secondo dopoguerra, dopo la parentesi dittatoriale, la celia scherzosa aveva però lasciato lo spazio ad altre urgenze: era il tempo della militanza, dell’impegno politico-amministrativo, dello sforzo ricostruttivo, della riflessione politologica, economica, sociologica, sviluppatasi sui periodici proprio nel momento in cui il Paese tentava il riavvio, dopo la tremenda esperienza bellica e prima della grande stagione del boom economico. Così il giornalismo umoristico finì sullo sfondo e si manifestò soprattutto in connessione con grandi momenti identitari e collettivi: se la Macennula è legata infatti alla festa di San Giuseppe, pochi anni prima, nel ’37 vide la luce, per esempio, anche Festa noscia, giornale celebrativo dei festeggiamenti leccesi per il patrono Sant’Oronzo.

Ma negli anni in cui la Macennula muove i suoi primi passi, la scena a Lecce e nel Salento è perlopiù occupata da periodici di altro taglio, come La bottega dei Quattro (1944); Il Saggiatore (1945); Antico e nuovo (1945), soprattutto Libera voce (1943-1947), di orientamento azionista, ma in cui non mancarono presenze letterarie di lustro sull’asse Lecce-Firenze (Macrì, Betocchi, Luzi). Poi ci furono anche i giornali letterari veri e propri, che intervennero a comprimere ancor di più lo spazio della stampa umoristica, benché in quel periodo la cultura letteraria fosse rintracciabile anche sui periodici non specialistici. Anche in questo caso i nomi e i titoli sono illustri: L’Albero di Girolamo Comi (1949), l’Esperienza poetica di Vittorio Bodini (1954), Il Campo di Francesco Lala (1955), Il Critone di Tommaso Santoro e di Vittorio Pagano (1956). Questi periodici intercettarono dalla periferia, spesso con qualche ritardo, le tendenze principali della letteratura nazionale e, attraverso i loro collaboratori più importanti, si collegarono alle capitali culturali del tempo, in un sforzo di sprovincializzazione. Come si può vedere, poco o nulla di questo discorso riguarda il settore del giornalismo umoristico oramai compresso e rarefatto, sicché la Macennulla, nel suo piccolo, rappresenta pressoché un unicum nel panorama della pubblicistica coeva; ed è un dato da tenere nel dovuto conto per un corretto inquadramento storico-culturale del giornale, che, nei suoi primi numeri, è anche uno spaccato della Copertino post-bellica, alle prese con la definizione della sua nuova identità urbanistica, sociale ed economica.

Presenze letterarie. Queste presenze meriterebbero un approfondimento sistematico, sebbene non siano né numerose né di primo piano. Intanto, è però possibile rintracciarne alcuni caratteri di fondo. Innanzitutto, la letteratura nella Macennulla serve spesso a potenziare la carica satirica del giornale, sia nella sua declinazione politica che in quella sociale e di costume. In secondo luogo, le espressioni letterarie non furono solo vernacolari, ma anche italiane, nonostante l’intitolazione dialettale del giornale; e ciò accadde sin dal primo numero, dove fanno bella mostra alcune Istantanee in quartine di ottonari (alcuni, per la verità, ipometri), che sono quadretti caricaturali di personalità del paese. Bilingui, a seconda delle annate, sono anche gli editoriali d’apertura. Non è sempre facile individuare le allusioni a fatti e a persone; sarebbe difficile anche per un copertinese di oggi, visto che è passato così tanto tempo, figurarsi per un non copertinese. Ecco un’altra caratteristica del periodico: secondo il cliché abituale della letteratura satirica di ogni epoca, qualche volta l’obiettivo polemico è apertamente dichiarato, altre volte, invece, è richiamato in modo criptico, enigmatico e dissimulato. Non solo il bersaglio, anche chi lo colpisce, del resto, talvolta lo fa in prima persona, altre volte dietro nomi fittizi e immaginari. Ma a cosa serve il testo letterario umoristico, in lingua o in dialetto? Serve a connettere, soprattutto se accompagnato dalle vignette, cultura alta e cultura bassa. In questo è ravvisabile il collegamento più evidente della Macennula con il filone del giornalismo umoristico di Terra d’Otranto di secondo Ottocento, di cui si riprendono altri cliché, come lo sguardo paternalistico sul mondo degli umili (mentre i coevi periodici di orientamento progressista avevano, al riguardo, ben altro approccio).

Dal punto di vista della poesia, i generi metrici privilegiati sono quelli più orecchiabili e musicali, come sonetti e quartine: la predilezione è per le forme chiuse, comunque, mentre la prosa trova il suo sbocco più significativo soprattutto negli editoriali, spesso firmati dal “Macinnularu” di turno, anche nella forma della “lettera aperta”. A volte il taglio è persino meta-letterario, cioè di riflessione critica sulla letteratura, certo un po’ primordiale e ingenua, come nel pezzo Intorno alla poesia paesana (1952) di Cassola (pseudonimo forse allusivo allo scrittore romano, che fu anche collaboratore di importanti periodici). Lo stesso Cassola fu autore peraltro, nell’annata del ’50, di quartine indirizzate a un luogo identitario della città, il Vecchio Castello, mentre un non identificato Cado dedica un altro componimento aulicheggiante a una passeggiata fra le rovine di Casole: questa compresenza, spesso stridente, fra registri opposti, l’alto e il basso, è un’altra caratteristica della cultura letteraria del giornale.

Non mancano parodie letterarie di autori celebri, piegati alle esigenze della satira strapaesana: Dante (ci imbattiamo con qualche sorpresa in un Inferno copertinese, arguta e divertente parodia del primo canto dell’Inferno: forse un ricordo dei Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis, capitano Black?), Leopardi, García Lorca, Manzoni, la cui ode Cinque maggio diventa Il due giugno, con chiaro riferimento al referendum monarchia-repubblica da poco svolto (nel numero del ’46); e c’è anche una caricatura della celebre Ode a Venezia del poeta Arnaldo Fusinato, pubblicata nel numero dello scorso anno. Non mi pare invece che compaiono nella Macennula riferimenti alla più importante gloria letteraria copertinese, quell’Aleardo Trifone Nutricati Briganti, importatore in provincia di un gusto letterario tardo-romantico e primo-decadente.

 Un largo spazio occupano poi la paremiologia dialettale e la poesia popolare e quella in dialetto (si vedano, a questo proposito, soprattutto le poesie di Antonio Viva, vera e propria anima del giornale). Probabilmente per il suo legame con il patronato josephino sulla città, nella Macennula è invece assente o secondaria la satira religiosa, a cui si preferisce la provocazione politica o sociale.

Sebbene mi sembri che nei numeri più moderni, stampati su carta doppia con bei colori sgargianti, le dinamiche e le vicende amministrative della politica cittadina abbiano preso il sopravvento su altri temi, la Macennulla ha comunque conservato, anche nella sua versione moderna, quella cifra ludica e “ricreativa” richiamata sin dalla Premessa al primo numero del periodico; e che il giornale abbia continuato a svolgere anche nella sua fase storica più recente, nella forma lieve e scherzosa che è a esso consentanea, una costante funzione identitaria, giustificata anche dal suo abbinamento con la festa patronale di San Giuseppe e dall’impiego, sia pure in forma più evoluta del passato, di caricature, vignette alla Forattini e pupazzetterie varie. In questo suo nesso fra testo e immagine, fra sacro e profano, fra italiano e dialetto, fra cultura alta e cultura bassa è riconoscibile, del resto, l’eredità più vistosa del giornalismo umoristico ottocentesco, ma anche l’espressione nuova e originale di un festevole clima strapaesano.


[Letto a Copertino il 15 giugno 2019, presso la sala consiliare della cantina sociale “Cupertinum”, in occasione della celebrazione dei settantacinque anni di vita del giornale]

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