È straordinario il senso di maturità di un liceale che, mentre descrive ironicamente la “commedia” dei periodi di corteggiamento sorvegliati dai genitori (11), già immagina la fine tragica di una relazione impossibile, scongiurando il suicidio per avvelenamento con una battuta umoristica: lu vilenu se vinne cusì ccaru! / spittamu mmarcatisca… (5).
Ancora adolescente, sonda l’angoscia personale del tempo che passa e scrive sulu quist’anni nosci se pèrdune / senza lli vidi turnare mai (9) e, in una struggente chiusura intrisa di amore filiale: Sulu sti canti nu’ ssu’ ncora sicchi, / sṭrìncili, mamma, sṭrìncili a llu core: / su’ vvint’anni ca sṭrinci, se li zzicchi, / su’ ppàrpiti ca sṭrinci, suntu amore! (19).
Sono emozionato nel rileggere questi componimenti e sono grato all’amico Fabio D’Astore per averli portati alla mia attenzione.
Gaetano Romano – con il quale preciso di non avere nessun rapporto di parentela noto e documentato –, negli ultimi anni della sua breve vita, serbò tutta la produttività che aveva in precedenza consacrato a versi sublimi e tormentati, a temi di tutt’altro impegno, come mostra la seconda parte di questo volume.
Molti cambiamenti devono essersi presentati nella vita di un animo attento alla famiglia e al sentimento della comunità d’origine, che sembrava esprimere in queste produzioni un desiderio di eterna fedeltà (coniugale, ambientale, culturale). Non è facile immaginare le esperienze che possano averlo indotto a dimenticare questo mondo e questo genere espressivo per dedicarsi totalmente a propugnare ideali politici, laici e progressisti.
Da giornalista, infatti, seppure solo pochi anni dopo, proruppe in una fitta serie di scritti polemici in cui esprimeva una feroce condanna del clericalismo[2], riservando invece tutta la sua appassionata produzione alle questioni dell’istruzione pubblica, delle organizzazioni operaie e, soprattutto, dell’emancipazione femminile.
Inoltre, a riflettere oggi sulla sua attività pubblicistica, sorprende che in diversi numeri dei giornali che aveva contribuito a fondare, compaiano anche testi personali di corrispondenza amorosa, come quelli della sezione “Ninnoli e cianfrusaglie” qui riprodotti nelle appendici finali.
Non credo che, anche riprendendo i ponderati passaggi in cui il testo di Fabio D’Astore descrive questi momenti della vita personale del Nostro, potrei aggiungere nulla di più, se non qualche perplessità sul sostanziale mutamento di temperamento e d’interessi consumatosi in così pochi anni, nel corso dei quali si stabilì prima a Taranto e poi a Brindisi.
In realtà, anche in merito ai componimenti in dialetto e all’avventura letteraria precedente, avrei difficoltà a ricercare figure e giudizi tecnici più competenti e forbiti di quelli espressi dall’ottima riedizione di Fabio D’Astore. Al di là delle inclinazioni o degli echi letterari che questi dottamente riconosce, mi limito a sottolineare che sono versi composti da un giovane che ha in mente Leopardi (l’infinito silenzio, gli sterminati spazi, il caro monte…), e il Dante de “lo maggior corno de la fiamma antica”, trasfigurato nelle atmosfere crepuscolari dei primi del Novecento, nei toni grigi della morte, della notte, dell’attrazione per i cimiteri… Si respirano atmosfere gotiche (assioli, civette…), le voci dei morti che escono da sotto le lapidi o da sotto la sabbia oppure dal mare quelle degli annegati. Quello che sembra degno di grande attenzione è che gli accennati languori, il clima onirico, le irrequietezze dell’anima trovano un’adeguata espressione in un dialetto che riprende spontaneamente temi che avevano percorso l’Europa sin dai primi dell’Ottocento (dopo McPherson, Foscolo…) e li arricchisce di elementi decadenti (suggestioni di Poe circolavano in Salento, alla fine del secolo ben al di là della letteratura scolastica), anticipando occasionalmente (siamo nel 1902!) un accenno agli sviluppi che avrebbe ispirato Lee Masters a molti autori successivi (tra i pugliesi, Pietro Gatti).
È interessante, per inciso, l’operazione di riscrittura razionale, secondo una grafia d’ispirazione dedonniana, che D’Astore propone, con acribia, per rendere recuperabile la lettura ad alta voce di versi che sono appunto particolarmente “armonici”.
Ecco dunque che passo a occuparmi di lingua, sul cui terreno posso forse aggiungere qualche considerazione utile. Pare infatti particolarmente preziosa questa restituzione attenta, da parte di un parlante nativo, della fonetica (e della morfologia) del dialetto casaranese, che aspetta ancora di essere descritto accuratamente (ad es. coi dati della sezione salentina della Carta dei Dialetti Italiani).
Questi testi, così rielaborati sul piano grafico, offrono testimonianze di una morfologia ben definita e ben localizzabile nel Salento meridionale (già di area ugentina). Il sistema dei possessivi (meu, mia, tou, tua, mei,: toi, nosciu, osce etc.) e quello dei pronomi (tonici: tie, issu…; atoni: ne, ve…)[3], gli indefiniti (ogni, àuḍḍu, quarche d’unu, quarche, ciuveḍḍi…) e le forme verbali (aje, daje, staje, vaje… criu, moriu… tinìa, facìa… ippi/e, ẓẓau, stutau, facìu vs. fice, campai, murimme, passara… pozza, dìcane etc.) individuano chiaramente una parlata localmente connotata e riconoscibile ancora oggi.
I testi sono ricchi di forme alla 3a ppl. che aiutano a descrivere un gran numero di voci verbali e a illustrare alcuni tipici esiti vocalici e consonantici (spànnune ‘spandono’ (3), (se) vìdune (6, 16), se divèrtune (8), se dìcune (11), pàrune, càntane, pàssane (7), cùntane (7, 18), pèrdune, sparìscune, vènune, sçiòcane (9), fùmane, ntònane (10), salùtane, ncarìzzane (12), sparpàjane (14), pàrtune (16), stìrane (le razze), mmìscane, òtane (17), èssune, fùsçiune, mòrune, chiàngune (18), còprune (19) etc.).
Rispetto alle soluzioni più tipiche del linguaggio colloquiale, i versi si articolano spesso con l’aiuto dei gerundi (sṭrolicannu, fiscannu (3), cridannu (4, 18), spittannu (5), facennu (5, 11), gudennu (6), lassannu (7), pinnennu (10), passannu, pinzannu (12, 18), tajannu, cercannu, cattisçiannu, sintennu, vidennu (16), ggirannu, vivennu (17), cuprennu, murennu, sçiucannu, sparennu, chiancennu, nzumpannu, sprusçiannu, studiannu, scuprennu, gudennu, scherzannu (18) etc.)[4].
Tutti illustrano regolarmente assimilazioni di tipo nd > nn, mb > mm che si riscontrano anche in munnu (2, 13), tunnu (2), cranne (6, 17) e crannezza (12), scinne (7), vinne ‘vende’ (5) (= vinne ‘venne’ (8)), quannu (8), culummi (10), abbannunu (15), vanna (16) e persino splennore (11) che conserva un nesso iniziale –spl– che lo qualifica come prestito parzialmente adattato dall’italiano (vs. sbiandore di altri modelli dialettali, più popolari)[5]. A questi sfugge però sbandatu (12).
Del tutto tipico dell’area salentina meridionale è il trattamento ng(i/e) > nc(i/e) che si ha diffusamente: canciata (2), scancìa (3), chiancennu (4, 18), àncilu (4), cu mmancia (17), sta cchiance (18), sṭrinci (19). Il fenomeno si accompagna anche alla resa sorda di –z– postnasale (menz’ura (2)).
Anche -l- preconsonantica appare con trattamento irregolare: generalmente rotacismo (come in quarche (6), artare (6), pàrpiti (5, 19), che si associa alla comunissima cacuminalizzazione di -ll-), oppure > –u̯– (in àuḍḍu e squasatu, per metatesi < ex-calceatu, o anche duce/i) o con assimilazione bidirezionale (ẓẓau < *altiav(it)).
Risultato di lessicalizzazione e di alternanze fonosintattiche sono i trattamenti di v- per i quali prevale la conservazione, come mostrano i diffusi esempi di vasi ‘baci’ e vampe ‘fiamme’ (de vasi (5), ogni vvasu (7), su’ vvasi (18), e vvasi, nna vampa, de vampe, su’ vvampe (18), vagnona (6), le varche (9), ogni vvanna (16) etc.), o di betacismo (mbilinàmune vs. vilenu (5), nu’ mberdisce vs. è vverde (2) e (hannu) bbinire (12) e (è) bbinutu (13) vs. vinne (8), vènune (9)). Al contrario, si è avuta però cancellazione di b- nei casi di oschi (7), utti e ucca (16). Lo stesso accade per br- (razze (17) vs. mbrazzate (18)), mentre la conservazione di cr/gr- (cranu (13), cranne (6, 17), crappe (16)) convive con casi di probabile ipercorrettismo (per influsso dell’italiano), dato che si hanno gridu (4) e gridi (16) ma crida (18), insieme a vaje cridannu, su’ ccridi e a ccridare (18). Questi fenomeni rientrano nel generale trattamento areale delle occlusive sonore (anche dell’italiano) che risentono di valutazioni ancora oggi alternanti da parte degli scriventi salentini (si pensi anche solo alla conservazione di –d– interna in queste voci o di (-)g– in nfugare (18), gudennu (6, 18), gudisti (18, v. 48), ma cudìmuli (18, v. 35)).
Non mi dilungo sul vocalismo tonico, quello tipico del Salento meridionale (di tipo siciliano), già visibile dagli esempi sopra, con qualche esito metafonetico lessicalizzato (jentu, tiempu) e le note irregolarità (velu, fede, vagnona, croci, amore, dulore vs. duluri, suduri e culure, curnicioni). Penso sia invece interessante soffermarsi sui tipici esiti in -i- di -i/e- pretonici (carcirati (1), tinutu (3), vilenu (5), ddiventa (6), ddifrisca (10), pinzannu, (hannu) bbinire (12), (è) bbinutu (13), pricati, piccatu, spittati (18))[6].
Torno invece sulla questione dei trattamenti di d– iniziale, frequente nella preposizione de (oggi comunemente ormai te), e di l– iniziale negli articoli, oggi popolarmente cancellata, che qui invece risulta sempre conservata, senza dare luogo alle tipiche contrazioni con le preposizioni. In tutta la produzione di Gaetano Romano si leggono sempre lu, la, li, le, de lu, de la etc. (ssuti de lu core (1), de lu munnu (2), de le luci (3), de la fame (6) etc.). L’argomento è di grande interesse perché le forme che assecondano la cosiddetta Lex Porena (valida per il roman(esc)o) parrebbero essersi diffuse anche a produzioni scritte solo irregolarmente nel corso del Novecento, come mostrano i numerosi, contrastanti esempi che forniva negli anni ’90 il compianto Pino De Nuzzo[7].
Ecco dunque che questi splendidi testi, magistralmente analizzati nella presente edizione, oltre a mostrare la straordinaria versatilità del dialetto in quello scorcio di secolo e ribadire le indubbie qualità del poeta, offrono anche materiale utile al linguista per la datazione dei fenomeni e per l’analisi dialettologica fine di un dialetto che resta tutto ancora da studiare.
Torino, aprile 2023
[1] La numerazione progressiva dei componimenti qui menzionati si associa ai titoli nel modo seguente: 1. Oh pòviri mei canti tutti amore; 2. Fiuru de ciṭratina; 3. Notte a Ggaḍḍìpuli; 4. Bbrutta notte; 5. Bbotta e rrisposta; 6. Alla Chesia; 7. Fantasìa; 8. Susu llu munte “de la Campana”; 9. Quaḍrettu; 10. De fore; 11. Cummedia; 12. Alla finescia; 13. Canti de messi; 14. De Santa Cristina, 15. Nûle de passaggiu; 16. Alle vinnigne; 17. Passiggiata; 18. A ccampusantu; 19. Fusçire visçiu, mamma, sculurita.
[2] Questa contrasta con il convenzionalismo della strofa finale De fore (10) nella quale, solo qualche anno prima, sembrava incline a riconoscere una funzione civile o educativa alla religione, identificabile con il suono della campana che invita tutti i devoti alla preghiera.
[3] Ad es. mbilinàmune ‘avveleniamoci’ (5), vasàmune ‘baciamoci’ (18)… ve portu, cu vve pozza (1), ve stati (18) etc.
[4] Estremamente sfavorite nel parlato sono le forme con clitico come guardànnuse (7). Non mi soffermo oltre sulla sintassi che è qui adattata alle esigenze del metro, con frequenti costrutti infinitivali (fannu nnamurare, me face rricurdare (8), vidi discurrire, se vìdune cujire, famme raggiunare (16), famme sparire (17), sentu cuntare, ccumenza a ccridare, li visçiu scappare (18)). Nel complesso si evidenziano però la perifrasi progressiva sta ci rrìvane (17), comune nel Capo di Leuca, e spusare nu’ pputimu (5), con il tipico uso intransitivo di spusare.
[5] Anche studiannu (18) rappresenta un italianismo di necessità dato che la voce col nesso originario dj avrebbe dato stusçiannu (come in effetti dev’essere avvenuto anteriormente, definendo voci verbali di altro significato).
[6] Sembra lessicalizzata (e morfologizzata) anche l’armonia vocalica per –u (vs. –i) di alcune intertoniche (pòvuru (2) vs. pòviri, dìmmulu (13) (ma cudìmuli (18)). Altre eccezioni sono àncilu (4), mònicu e còfine (16), in cui prevale l’esito –i-.
[7] Tra i proverbi da lui raccolti c’erano ad es.: lu mieru bbonu ete lu bbastone te li vecchi o quannu manci fucennu, mori prima te lu tiempu, li guai te la pignata li canusce la cucchiàra ca li òta. Al contrario, poteva sembrare che la contrazione riguardasse solo i pronomi omonimi: … nc’era quarche d’unu ca sa tirava a nterra. Tuttavia altri proverbi confermano l’estensione attuale del fenomeno, o te manci sta minescia o te futti ta finescia, come rivelano anche gli etnotesti: ’a cascia ta porti… D’altra parte, come si vede, anche la notazione de/te oscilla ancora oggi: ci campa de speranza disperatu more vs. carniale chinu te mbroje, osçi carne e ccrai foje o lu sparagnu vale cchiui de lu guadagnu.