di Antonio Errico
Dice Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale che il re Ciro conosceva i nomi di tutti i soldati del suo esercito; Scipione quelli di tutto il popolo romano. Cinea, l’ambasciatore del re Pirro, conosceva per nome tutti i membri del senato e dell’ordine equestre di Roma il giorno dopo essere arrivato. Mitridate, che era re di ventidue nazioni, amministrava la giustizia in altrettante lingue, e poteva parlare in pubblico a ciascuna senza usare un interprete. In Grecia, se uno chiedeva a Carmada di dire i libri delle biblioteche, li recitava tutti come se li leggesse.
In una delle “Finzioni”, Jorge Luis Borges racconta che Ireneo Funes sapeva la forma delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina di un libro che aveva visto una volta sola. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una lunga veglia funebre. Forse riusciva a vedere tutte le stelle che c’erano nel cielo. Riusciva a ricordare non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Diceva di avere più ricordi, lui, da solo, di tutti gli uomini di tutti i tempi messi insieme. Diceva che la sua memoria era come un deposito di rifiuti. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo vertiginoso e multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso, sovraccarico di immagini, di meticolosi dettagli concreti eppure intangibili.