Il tempo, la guerra, la poesia

Se Tutto è sempre ora si apriva con una poesia in cui in scena, in una stanza, c’era il rapporto tra il vedere di là dalla finestra, cioè il darsi del paesaggio, e il raccogliersi, nel teatro interiore, di parvenze di un tempo vissuto e anche non vissuto, nel Convito delle stagioni, in tutte le sezioni, sono le forme del tempo, del loro apparire nella coscienza, che cercano le immagini, e si situano nel verso, nel suono.

Se devo dire quali sono i modi precipui – quelli che più di altri mi hanno spesso coinvolto e interrogato – con i quali la materia del tempo si presenta, si rappresenta, nominerei in particolare quattro ordini di figure: l’attesa, il ricordo, il visibile, il nesso tra il tempo vissuto e il tempo non vissuto. La declinazione di questi modi credo che sia un po’ una sorta di filigrana in quello che cerco di dire. L’attesa è sospensione, zona d’ombra in cui quel che più non c’è si ritira lasciando un vuoto e il non ancora non mostra il suo profilo ma si annuncia nebbiosamente: stato in cui fluttua il desiderio, e la presenza delle cose è velata, non dispiegata nella luce, ma allo stesso tempo chiede una prossimità che attenui quel senso del vuoto. L’attesa è anche linea di germinazione del possibile, e balcone, per così dire, dal quale si affaccia, senza mostrare i suoi lineamenti, l’impossibile. “Tout peut naître ici-bas d’une attente infinie” è un verso di Paul Valéry che ho molto amato. Il ricordo è il tempo fatto figura, gesto, voce, apparizione: una lontananza che lascia la zona d’ombra, o addirittura sfugge alla prigione dell’oblio, e si veste di lingua, ha un passo, una voce, un ritmo. Del ricordo mi ha sempre interessato il suo imprevedibile esito figurativo, nel senso che quando sale da quella regione oscura del già stato non sappiamo quali movenze e quali forme prenderà, e come si poserà nel verso, a quali immagini chiederà soccorso per toccare l’evidenza della parola. Del ricordo mi vengono spesso incontro due modi per dir così familiari, perché appartengono a due classici che da sempre mi fanno compagnia, Baudelaire e Proust: il primo, che dà oggettività e presenza e personificazione al ricordo (“le Souvenir”), il secondo, che coglie del ricordo il suo condensarsi in un frammento (“un frammento di tempo allo stato puro”), il quale, inatteso, ritorna attraverso una sensazione fisica, corporea, esteriore, ma in sé carica della nascosta contiguità tra le cose, tra l’anima delle cose. L’altro modo con cui il tempo spesso mi si presenta e per così dire cerca il verso è il visibile, anche nella forma del paesaggio che si mostra in una sua profondità, una profondità data dalle stagioni e dagli accadimenti che stanno nelle sue forme. Un visibile che non è, come per alcuni poeti è stato, “il mattino della creazione”, ma è forma che ha il peso di altri sguardi, di altre presenze, ha una sua storia, e allora qui la lingua trova la sua sfida, che è tentare un’accoglienza nella parola che sia come una rinascita. Sfida difficile: il lavoro del poeta è nell’orizzonte di questa sfida. Infine, il rapporto tra il tempo vissuto e quello non vissuto è come un velo che trascorre in tutte le forme che prima elencavo: quando viviamo un’esperienza quel che escludiamo o che ci sfiora senza appartenerci o si sottrae a noi ha una sua contiguità: è il regno del possibile che si è mostrato per un istante, il non vissuto che si è allontanato da noi, ma che lascia un riverbero.

Quanto all’istante, certo, nei miei versi, soprattutto in Menhir, esso è il luogo in cui il tempo rinserra tutto il suo potere, esponendolo all’estrema sfida del fuggitivo. Anche quella dilatazione dell’istante che è l’ora – da cui il titolo eliotiano della raccolta einaudiana, Tutto è sempre ora – non è che un luogo del pensiero e della lingua in cui le figure diverse della temporalità si raccolgono, precipitano, negandosi come passato presente futuro e legandosi al lampo dell’apparire, un lampo che un poeta come Baudelaire ha saputo figurare meravigliosamente nell’éclair che muove dagli occhi di una Passante nel tumulto della folla metropolitana. Forse ha qual- cosa, questa tensione verso l’ora densa di tempo, di simile a quello che Walter Benjamin chiamava Jetzeit, tempo in cui lampeggia qualcosa che è oltre il qui e ora.

Saracino: Quando abbiamo iniziato a condividere l’idea di questo libro, era già scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina. Oggi, a distanza di poco tempo, un altro conflitto precipita verso l’incertezza del futuro globale, quello tra Israeliani e Palestinesi. Mi chiedo che tipo di riflessioni la accompagnino in questo scorcio di buio intransitabile e se la poesia, con la sua ospitalità verso la lingua, può ancora essere una strada di ri- congiunzione oltre che una vocazione alla esplorazione del libro del mondo.

Prete: Certo, la poesia è, per sua natura, disarmata, anzi è il totalmente altro dalla guerra. Quando la si è voluta piegare verso l’innologia bellica, ha mostrato di perdere il suo primo alimento, la sua prima fonte, cioè l’immaginazione; l’immaginazione unita a un pensiero che muove dalla percezione del vivente, di ogni cosa vivente. La poesia è lingua che, proprio perché ospita il vivente, il corpo vivente, con i suoi sogni e le sue ferite, non si adatta a servire fanatismi, ideologie, e neppure chiusure identitarie e patriottarde, le quali per riprodursi hanno bisogno di astrazioni. E astrazione dall’umano è la politica intesa come tecnica del potere, non come governo della polis, della comunità. Alla politica intesa come gioco e relazione tra potenze appartiene il vecchio assioma del generale prussiano Clausewitz, cioè che la guerra è la continua- zione della politica con altri mezzi (mezzi distruttivi di vite umane, naturalmente). Dinanzi alla guerra, come ha dimostrato Ungaretti scartandosi dal grido bellicista marinettiano e dalle mitografie eroiche e celebrative dannunziane (il D’Annunzio poeta è solo là dove abbandona la postura eroica e da vate), la poesia è in ascolto, dolorosamente, del corpo ferito e distrutto: da quel silenzio muovono le parole, di quel silenzio è fatto il ritmo del verso. Oggi tornano a sacralizzarsi i con- fini, quando non si sono già, lungo il tempo, trasformati in muri, tornano le armi a prender campo e a fare quello per le quali sono fabbricate e vendute, cioè distruggere vite umane e villaggi, spezzare legami e radere al suolo edifici, abitazioni,
città intere. Se il terrore dispiega le sue nere ali, alcuni stati hanno bisogno di affermare con modi violentissimi la loro potenza. In più la comunicazione dall’alto, quella veicolata dai grandi mezzi televisivi e di stampa, deforma fatti, esige schieramenti, impone slogan. Venendo nel particolare, la ricerca delle cause sia per quanto riguarda il conflitto ucraino-russo sia per quanto riguarda il conflitto israeliano-palestinese finisce col passare in secondo ordine, perché resa opaca o trascurata nell’informazione corrente. In merito poi a quel che accade nella striscia di Gaza, se è giustissimo e necessario condannare ed esecrare in tutti i modi possibili le azioni terroristiche compiute da formazioni come Hamas, non si possono chiudere gli occhi dinanzi alle stragi quotidiane di civili, in gran parte bambini, perpetrate dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza, dinanzi a un popolo messo in fuga, scacciato dalle proprie case, privato di una vita decorosa. Non è possibile tacere sui decenni di occupazione di quelle terre, sulle minacce e persecuzioni e violenze scatenate contro gli inermi. In questi giorni rimpiango molto uno scrittore come Jabès. Molte volte con lui abbiamo parlato della Palestina e dell’ebraismo. Lui, ebreo egiziano allontanato dall’Egitto per le leggi volute da Nasser, lui che aveva messo in scena in tutta la sua opera le forme fantasticanti, sapienziali, dell’ebraismo della diaspora, soffriva per la condizione dei palestinesi. E se era fortemente critico verso ogni forma di antisemitismo, e su questo scriveva per condannare e deplorare, era allo stesso tempo fortemente critico nei confronti dell’occupazione dei territori palestinesi da parte dello stato israeliano e in generale era sconfortato per il fatto che una parte degli israeliani non riuscisse a riconoscere nell’altro quella ferita e quella sofferenza che il proprio popolo aveva subito. Ricordo la sua forte indignazione dinanzi a qualche politico estremista israeliano che affermava: “tutti i palestinesi sono terroristi”.

Dinanzi a tutto questo, la voce della poesia appare impotente. Eppure con il suo amore per la lingua, cioè per un paese da tutti transitabile, da tutti abitabile, e per la sua prima funzione, che è quella di dare figura e visione, luce e ritmo al sentire del vivente, la poesia mostra il disegno – trasparente, fluttuante, e tuttavia musicale e sensibile – di un’altra possibile forma del vivere umano.

[Estratto da Antonio Prete e Carla Saracino, Dal tempo qui raccolto. Una conversazione, Fallone Editore, Taranto 2024, pp. 86-92.]

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