Che cosa provavamo? Provavamo gli effetti del “sacro”, ovvero di una straordinaria vicinanza al mistero del vivere e del morire che il rituale delle bottiglie stappate e del saluto dei compagni di Antonio al passaggio della salma aveva esaltato a tal punto da commuovere tutti. Poi seppi dai miei cugini che gli amici di Antonio “avevano sposato” il loro amico defunto, cioè avevano simulato le “nozze” di Antonio, quelle “nozze” ormai impedite da una donna malvagia che lo aveva voluto tutto per sé.
Altre volte mi è capitato di sentire il brivido dovuto alla vicinanza al mistero della vita e della morte, e quasi sempre in occasione di eventi luttuosi: la morte dei miei genitori, di qualche amico o parente assai caro, ecc.; ma anche in occasione della nascita delle mie figlie, che ho salutato come un vero e proprio miracolo della vita. Ma terribile è la morte, non una nuova vita. Quando una persona cara scompare, l’ordinario assetto dell’esistenza è messo in dubbio, le certezze del quotidiano svaniscono e noi ci ritroviamo facie ad faciem col mistero. Allora ci sembra di non avere più risposte da dare a noi stessi. Alcuni non tollerano il vacuum prodotto da questa mancanza di risposte, ne hanno orrore (horror vacui). Pertanto, riempiono il vuoto con un dio, che li rassicura, e fanno della fede la consolazione della vita. Iddio diventa per queste persone la fonte del sacro. Altri invece riempiono il vuoto col ricordo, trattenendo presso di sé l’immagine della persona cara, eleggendo il culto della vita, nella sua precaria bellezza, a cifra dell’esistenza umana. Per loro è questa la fonte del sacro.
[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 97-99]