Presentazione di Fabio D’Astore, Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile

Su questi presupposti si è dunque acceso via via l’interesse per le specifiche aree regionali della produzione dialettale, come dimostrano i volumi della “Biblioteca salentina di cultura” che Marti e Valli hanno dedicato alla letteratura dialettale del Salento fra Sette e Novecento negli anni Novanta del secolo scorso. A un policentrismo esterno ne corrisponde uno interno: anche dentro la stessa area salentina è possibile, infatti, riconoscere diverse sub-aree. Gaetano Romano appartiene a quella sud-occidentale della penisola salentina, la stessa alla quale appartennero poeti dialettali quasi coevi del letterato di Casarano, come Saverio Buccarella, Giuseppe Marzo, Giuseppe Susanna e, soprattutto, il gallipolino Nicola Patitari. Se dal punto di vista geo-critico si passa a quello storiografico, Romano si colloca al passaggio dall’Otto al Novecento, una fase che vede la staffetta tra il D’Amelio, il padre fondatore della letteratura dialettale salentina, e il De Dominicis (cioè, tra una fase pre-moderna della poesia dialettale salentina e una moderna). A cavallo tra questi due secoli la poesia in dialetto (tutta, non solo quella d’area salentina) assunse specifiche caratteristiche: riscoperta nel vernacolo di una lingua vergine atta a una liricità pura; sviluppo di un teatro dialettale con finalità educative (un ambito nel quale anche Romano fu attivo con alcuni suoi perduti melodrammi in dialetto); mutuazione, in forma riflessa per l’appunto, dalla letteratura in lingua di generi, di temi, di forme metriche.

Tuttavia accadde anche che si rivestissero di letterarietà i canti popolareschi. Lo dimostra il componimento di Romano Fiuru de citratina, cheriprende nel titolo attacchi di stornelli popolari d’area laziale-marchigiana tenuti presenti da Gioacchino Belli in qualche sua composizione giovanile: Fior de limone, Fiore de menta, ecc. Belli ben presto si smarcherà da questa imitazione della poesia popolare. Romano invece, in linea con tanti altri minori del suo tempo, imita ed echeggia i modi della produzione stornellistica o strambottistica o epigrammatica tipica delle tradizioni poetiche popolari o popolareggianti, anche se poi applica su di essi una patina letteraria. 

Sempre sull’onda fine-secolare della poesia in dialetto, Romano produce una lirica perlopiù bozzettistica e folkloristica, costituita da quadretti di genere e animata dal gusto per la ricerca linguistica fine a sé stessa. Egli appartiene a una generazione letteraria in cui il dialetto cessa di essere la lingua della deformazione grottesca, della maschera e della smorfia, per assumere il ruolo di lingua della naturalezza e dell’autenticità; e in cui il dialetto si trasforma, in conseguenza della formazione del nuovo stato unitario, in idioma delle dimensioni periferiche e provinciali e dei subalterni e dei vinti: in Romano sono la mamma che perde la figlia infante, i mietitori al lavoro nei campi, le operaie nelle vigne. Il fenomeno è anche linguistico, perché i dialetti letterari rappresentano, in questa fase, un’idealizzazione e una stilizzazione degli idiomi parlati da queste classi sottoposte.

La poesia di Romano rispecchia un’altra tendenza della poesia dialettale al passaggio fra i due secoli, e cioè la disgregazione della società tradizionale a contatto con la modernità: il che fa sì che questa poesia perda la sua funzione mimetico-realistica e, in conseguenza della crisi degli schemi veristi e positivisti, adotti sempre più un timbro lirico-elegiaco (talvolta scadendo nel vernacolarismo). A riscattarla da possibili degradazioni interverrà la poesia del grande Salvatore Di Giacomo, che saprà conferire alla parola poetica in dialetto un valore evocativo di stampo novecentesco, sino ad allora sconosciuto ai testi dialettali.

Si parva licet componere magnis, la smilza silloge di Romano non risente ancora di questa evoluzione, com’è naturale che sia per un autore che chiude la sua esperienza creativa in dialetto ad appena vent’anni, collocandola già nel titolo e nel componimento proemiale sotto il segno della giovinezza e dell’amore. Per questo i componimenti di Romano replicano alcuni temi tipici del repertorio della poesia dialettale precedenti a tale svolta, talvolta secondo una rappresentazione di maniera e un po’ oleografica: squarci paesaggistici marini e terrestri del Salento, contrasti amorosi di sapore comico-burlesco, vari figurini femminili, scene di vita paesana e contadina (non farò citazioni, giacché è prevista una declamazione di alcune di queste poesie).  Al centro è l’amore del poeta per la sua Rosina, presente in più componimenti, spesso condito da riflessioni esistenziali e da ripiegamenti meditativi. Si percepisce nei componimenti di Romano una certa consapevolezza letteraria, per la ricca intertestualità dei testi e anche per la loro polimetria, volutamente alternativa all’uso esclusivo del sonetto, divenuto consueto nella poesia dialettale dopo il Belli.

Per quanto riguarda la metrica, Romano utilizza vari schemi strofici, alcuni anche di tradizione classica (per esempio, l’ode saffica e alcaica), probabilmente con l’idea di replicare, attraverso questa via, ritmi e forme popolari (un po’ quello che si era sforzato di fare Carducci con la metrica greca e latina).

Per quanto riguarda l’intertestualità, sono riconoscibili in Romano i modelli di Leopardi (come si evince già dall’intitolazione della raccolta, Canti), la poesia tardo-simbolista, il sentimentalismo della lirica tardo-ottocentesca, il realismo tardo-scapigliato, il classicismo carducciano, il decadentismo pascoliano e dannunziano: tutti modelli puntualmente riconosciuti dal curatore dell’edizione. Particolarmente indicativa sotto il profilo intertestuale è la ballata A ccampusantu. Sonnu de nuvembre, in cui si riprende un tema diffuso nella poesia romantica europea, quello della danza macabra: come segnala Fabio D’Astore, alla base di questo testo di Romano c’è la ballata di Goethe, Der Totentanz, ma soprattutto un’altra ballata, quella del De Dominicis Lu ballu de li muerti. (La notte de lu 2 nuembre), inclusa nell’ultima raccolta del poeta di Cavallino, Spudiculature, del 1902. Va tenuto presente che proprio in questo stesso anno furono stampati a Gallipoli i Canti di Romano e appena nell’anno successivo, il 1903, uscirono due opere, i Canti di Castelvecchio di Pascoli e il terzo libro delle Laudi di D’Annunzio, l’Alcyone, che in un certo senso chiudono la fase pienamente ottocentesca della nostra lirica: si tratta di coincidenze non trascurabili.

A legare Romano a De Dominicis non sono solo nessi intertestuali, ma anche il medesimo profilo socio-culturale, molto diffuso nella letteratura dialettale del Sud: entrambi sono di umili origini, autodidatti e poeti semi-colti e popolareggianti. Non di meno, entrambi seppero rapportarsi con la modernità letteraria italiana ed europea, importando in Puglia e nel Salento paradigmi letterari spesso incogniti nel resto del Sud: romanticismo tedesco, scapigliatura, decadentismo. Rispetto a De Dominicis che scrive liriche, ma anche poemetti nella scia di Pascarella, Romano predilige alla narrazione lunga quella breve del frammento elegiaco e lirico-intimistico, al modo di molti altri poeti dialettali della sua generazione (fanno eccezione le quattordici strofe esastiche di settenari doppi del già citato A ccampusantu, nelle quali l’imitazione di De Dominicis è evidente anche per l’adozione di una narratività quasi di tipo poematico).

Romano e De Dominicis sono accomunati anche dal loro legame con le riviste, sulle quali entrambi questi due poeti (ma non furono gli unici) diffusero le proprie creazioni letterarie.  Tra Otto e Novecento le riviste letterarie proliferarono in Terra d’Otranto (è un fenomeno ben studiato da Valli) e non solo accolsero componimenti in dialetto di vari autori, ma divennero anche la sede di un dibattito sul ruolo e la funzione della letteratura dialettale, spesso accusata di essere priva di nerbo politico-civile e sociale. C’era, insomma, chi voleva fare della letteratura e, soprattutto, del teatro in dialetto uno strumento di critica sociale e di emancipazione degli umili, in reazione a un’idea di poesia vernacolare tutta chiusa, invece, in uno sterile lirismo. A Gallipoli, per esempio, fu attivo fra il 1887 e il 1922 un giornale di orientamento repubblicano e socialista, “Spartaco”, la cui denominazione era già un programma, sul quale si affrontarono proprio questi temi. Forse già a Gallipoli, dove Romano aveva compiuto gli studi tecnici, Romano cominciò ad avere questa sterzata ideologica, poi consolidatasi nel momento del suo trasferimento a Brindisi (1904), dove egli fu impiegato con varie mansioni presso l’ufficio Poste e Telegrafi. Qui Romano fu cofondatore e collaboratore de “La Gazzetta di Brindisi”, di cui scrisse il pugnace editoriale programmatico d’apertura, intitolandolo carduccianamente Ça ira, e poi scrisse su l’ “Unione”, altro periodico cittadino di orientamento socialisteggiante. A quest’attività di pubblicista e a questa fase di impegno politico-civile Fabio D’Astore dedica la seconda parte del suo studio su Romano, riproponendo (e opportunamente contestualizzando) i suoi articoli giornalistici. Questa seconda fase della biografia umana e culturale di Romano rappresenta una netta cesura con quella precedente, cui è invece dedicata la parte iniziale del libro. Contiene, tuttavia, anche qualche tratto di continuità e non solo elementi di rottura col passato: in due interventi all’interno di una rubrica da lui curata, Ninnoli e cianfrusaglie, Romano ritorna sulla sua poesia dialettale, ma in forma di riflessione meta-letteraria. Ma l’esperienza della poesia in dialetto poteva considerarsi per Romano definitivamente conclusa dopo la pubblicazione dei Canti a Vint’Anni, come attestava la scelta di scrivere poesie in italiano (da cui Romano ottenne risultati ben inferiori), sebbene, a non voler scindere in modo troppo marcato le due fasi, si potrebbe forse ritenere che l’interesse del casaranese per il popolare, che già era stato tipico delle sue creazioni letterarie in dialetto, sembrava ora traslarsi in una nuova dimensione, quella del fervore etico, politico, civile a favore dei ceti disagiati, delle minoranze, delle donne, secondo rilevanti posizioni proto-femministe e anti-clericali e su questioni capitali, come quelle legate al mondo dell’istruzione (di cui Romano dimostrava di conoscere le più aggiornate politiche educative a livello europeo).

Romano, che talora cela la sua identità dietro a pseudonimi, è un abile polemista dalla prosa lucida e tagliente, a volte un po’ retorica. Interviene contro giornali rivali di orientamento cattolico-conservatore con slogan di perentorio taglio razional-illuministico e massonico (lui, figlio di una terra che ha dato i natali a illuministi rinomati; uno di questi slogan campeggia sulla copertina del libro: “Facciamo la luce!”) o, in forma irridente e aggressiva, contro esponenti dell’Amministrazione comunale di Brindisi, in un ribollente clima “strapaesano”; ma la sua scrittura serve anche a propagandare ideali assoluti e universali, risentendo della coeva situazione politico-ideologica. Egli muore precocemente e tragicamente all’inizio del ’10 in un incidente ferroviario, mentre presta servizio lungo la tratta Brindisi-Foggia (era nato nel 1883): la sua è una morte bianca, dunque, che colpisce proprio chi si era battuto per una vita a favore dei diritti dei lavoratori e per l’associazionismo sindacale. Come detto la sua esistenza si consumò fra interessi letterari e istanze politico-civili, due facce non disgiunte di una medesima personalità culturale, che dimostra per questo una certa complessità.

Questa sera saranno lette alcune sue poesie in dialetto; ma a me piace, per dare un ritratto integrale di Romano, dar voce anche al polemista e al difensore dei diritti civili. Il brano che leggerò è tratto da un articolo che Romano pubblicò sull’“Unione” il 19 agosto 1909, pochi mesi prima della sua morte, e riguarda il tema dell’educazione, a lui molto caro. È scritto in uno stile meno acuminato di altri suoi scritti, ma testimonia benissimo la connaturata e quasi commovente spinta ideale e pedagogica di questo personaggio:

Educare, sapere educare è una gran bella cosa; svolgere gradatamente e armonicamente tutte le facoltà dell’educando è prepararne la completa formazione, dare i preziosi germi di ogni nobile sentimento, dando così un impagabile contributo alla società; è davvero cosa mirabile, grandissima, sublime, specie poi quando in capo alla missione educativa v’è l’ideale della virtù, penetrato nei recessi della propria coscienza, l’ideale del bene della famiglia umana, del sacrificio incondizionato e silenzioso; specie poi quando l’insegnamento è retto assolutamente allo scopo di andare oltre i propri doveri e le proprie forze, di trasfondere la miglior parte di sé in quella dei nostri piccoli, di vivere per il loro bene, unicamente per questo apostolato sublime, vivere per la luce, per la forza, per il sapere.

Grazie a Fabio perché ha permesso a tutti noi di conoscere, con il suo prezioso lavoro, Gaetano Romano.

[Presentazione del volume di Fabio D’Astore, Gaetano Romano tra letteratura e impegno civile, Milella, Lecce 2023 – Casarano, 6 ottobre 2023 e 20 marzo 2024]

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