di Marco Leone
Lo studio che Fabio D’Astore ha dedicato al poeta e letterato casaranese Gaetano Romano è pregevole sotto molti punti di vista: perché sottrae all’oblio una figura sino a ora pressoché fantasmatica; perché lo fa raccordando insieme testualità e storicità con impeccabile acribia filologica (ai testi si accompagnano l’introduzione e la nota la testo; per le poesie in dialetto, anche le traduzioni); perché illumina il profilo di una personalità culturale che, nonostante la brevità della sua esistenza, seppe incrociare poesia vernacolare e impegno civile, risultando dunque interessante, per questo motivo, sia per il linguista sia per lo storico della letteratura che per lo storico tout court.
Soprattutto, questo libro reca in sé un ben riconoscibile marchio di fabbrica: esso s’inserisce pienamente, per metodo e per argomento, nella linea degli studi di Mario Marti e di Donato Valli sulla letteratura dialettale d’area salentina, di cui si presenta come una diretta emanazione e, in qualche modo, anche come un aggiornamento o come un’integrazione.
È noto che De Sanctis aveva sostanzialmente emarginato la letteratura in dialetto, poiché incompatibile con la sua visione centripeta delle vicende letterarie. Fu Croce a riassegnarle l’importanza che meritava con la riscoperta delle figure di Giovanbattista Basile e di Salvatore Di Giacomo e con la fondazione della categoria della “letteratura dialettale riflessa”, cioè di quella letteratura dialettale basata su un’autentica coscienza d’arte. A Contini si deve, invece, un inquadramento storiografico del fenomeno: per il grande filologo, che negava l’esistenza categorica d’una poesia in dialetto, la parte dialettale della letteratura italiana ha sempre fatto “visceralmente corpo” con quella in lingua e, in questa scia, Mario Marti ha ribadito qualche anno fa il medesimo concetto in un importante saggio sul “trilinguismo” delle lettere italiane.