Noterellando… Costume e malcostume 2. Le parole sono pietre

         Segno dei tempi. Superficiali. Dozzinali. Tutt’altro che di grande bellezza.

In quella stessa rivista, evidenziato dentro un riquadro, ho altresì letto un pensiero a firma di Kalu Rinpoche, che il redattore – in osservanza alle brutali regole del ‘mordi e fuggi’ di cui sopra – non ha ritenuto di dover qualificare chi quegli sia (…se lo sapete, bene, se no v’arrangiate. Questa è la regola-base). Trattasi comunque – ho fatto delle ricerche per mio conto – di un santone tibetano del secolo scorso (1905-1989), noto anche in Europa, e pare alquanto discusso per alcune non chiare vicende sessuali.   

Fatti suoi. Ciò che nella fattispecie m’interessa è il pensiero in esame, quello letto sulla rivista, che così recita: Viviamo nell’illusione / e nell’apparenza delle cose. / C’è una realtà. / Quando lo capiamo, / ci accorgiamo che siamo niente / ed essendo niente,/ siamo tutte le cose. / È tutto.

         Ora, senza la minima ironia, e col massimo rispetto per il maestro, lo chiedo umilissimamente anche a voi: – Ma che vuol dire?!… Ma davvero, anche in argomentazioni serie, dobbiamo masturbarci con le parole, rendendole a bella posta misteriose, ambigue, del tutto incomprensibili e contraddittorie?

Perché, vivendo nell’illusione (chi lo dice, poi? Mi sembra un’affermazione opinabilissima), devo cercare di capire che c’è una realtà.., e finalmente, riuscito in tale impresa, mi accorgo che sono niente (sic!), e però, essendo niente, sono tutte le cose (ri-sic!). Chi glielo spiega, questo, ai tanti emarginati, malati, soli e senza soldi, che soffrono il loro stato di nullità e ignorano invece di essere ”tutte le cose”?

         Ma non sarebbe più semplice (e corretto) parlare al popolo con semplicità? Che senso ha, questo vezzo dilagante di dire quello che passa per la testa senza dire un bel fico? E andare per luoghi comuni, cercare l’effetto ad ogni costo, ‘abboccare’ (questo vale per chi legge o ascolta) a tutto senza riflettere e ragionare?

          Le parole sono pietre è il titolo significativo che Carlo Levi diede a un suo celebre romanzo. Le parole hanno una loro significanza e identità precise, quindi un peso e una solennità che non permettono variabili di comodo, come avviene ormai di frequente in politica, in economia, in certo giornalismo cosiddetto d’opinione (“Sono stato frainteso”, si scusa regolarmente il Signor Chiunque quando viene pizzicato nelle sue castronerie…).

         Certo, si può fare poesia e letteratura, con le parole. Ci si può anche giocare e suggestionare. È la nostra ricchezza e magia di animali fantasiosi e pensanti. Ma pensiamoci, appunto, qualche volta, a quello che leggiamo o ascoltiamo. Non ‘beviamo’ supinamente qualsiasi mistura che ci viene proposta, e utilizziamo sempre – cum grano salis, senza preconcetti – un po’ del nostro senso critico. Che ci aiuterà a capire meglio.

Che “L’ha detto la televisione” o “È scritto sul giornale” non significa che quella sia sempre e comunque la verità assoluta. Nel nostro mondo terreno, peraltro, la verità assoluta non esiste, come perfino Papa Francesco ha precisato, più o meno un anno fa, in una lettera pubblica a Eugenio Scalfari. Essa è fuori e sopra di noi. E maggiormente per questa ragione, abbiamo il dovere di pensare e di capire.

Alla maniera di Cartesio (Cogito, ergo sum). O anche seguendo il sommo Aristotele, che, sostenendo che “l’uomo non sopporta troppa realtà“, apriva le porte al sogno.

A presto.

 [“Il Galatino” anno XLVII n. 15 del 26 settembre 2014, p. 3]

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