Inchiostri 110. Percorrendo Lecce

La sua Lecce si distende sotto un cielo «biancamente dorato» e, si noti, l’attacco della lirica, costituito da un avverbio più un aggettivo-participio, è pregnante, facendo nello stesso tempo riferimento all’impressione di biancore che il cielo trasmette per l’eccesso di luce, la quale è intensissima data la latitudine, ma anche perché viene amplificata dalle petraie bianche che giacciono intorno alla città e dal vicino Adriatico, e al tono dorato provocato dalla pietra con cui è stata costruita Lecce. A questo proposito osserverei che i recenti interventi di restauro hanno restituito agli edifici leccesi un biancore che il passare del tempo aveva realmente fatto virare verso l’oro, anche se poi annerito dal successivo inquinamento da traffico; Bodini ha visto una Lecce sulle cui facciate sembrava di scorgere appunto l’oro di una pietra tenerissima, anche troppo fragile, ma estremamente reattiva alla luce e all’influsso dei fenomeni climatici.

A differenza di quello romano, il cosiddetto Barocco leccese non si affida tanto alle teatrali e imponenti scenografie di piazze e strade, ma alla fine decorazione scultorea e in bassorilievo delle facciate e delle corti interne, per cui spesso si ha l’impressione di stare davanti a un telo sul quale sono stati ricamati motivi zoomorfi o floreali; ben lo sapeva Bodini che dirige infatti lo sguardo ai cornicioni e ai balconi ricchi di particolari anche volutamente comici (ancora oggi il carattere stesso dei Leccesi indulge all’ironia e a un misurato scetticismo): indimenticabili sono infatti gli «asini dotti con le ricche gorgiere» e sensuali gli angeli «dalle dolci mammelle». Decisivo mi sembra quel “corrono” che ben rende il senso di movimento incessante e di proliferazione delle figure in pietra. Ed eccolo il centro nevralgico della riflessione: si tratta di «un frenetico gioco / dell’anima» che teme il trascorrere del tempo e che deve difendersi da un cielo troppo chiaro.

Ma la seconda occorrenza dell’area semantica dell’oro sposta la focalizzazione dal frenetico gioco dell’anima all’aria, la quale non ha fretta, invece, e indugia in «quel regno / d’ingranaggi inservibili», dal momento che si tratta di elementi decorativi, non essenziali all’architettura degli edifici; «il seme della noia / schiude i suoi fiori arcignamente arguti» e qui Bodini pensa sicuramente all’amato Góngora, sceglie un aggettivo (“arguti”) che sta per quell’agudeza y arte del ingenio di iberica e barocca memoria, connette con una citazione che definirei inapparente il Salento alla Spagna, l’ultima, magnifica e decadente, signora su queste terre di periferia. L’amore di Vittorio Bodini per la lingua e la letteratura spagnole si genera anche per un recupero consapevole di una delle proprie radici, recupero concretizzato nello studio dell’ardua poesia gongorina e nella magistrale traduzione dei grandi Spagnoli della modernità (Alberti, Lorca, Salinas e via dicendo). E la modernissima, anche leopardiana noia, sembra essere il motore che spinge a simulare in mille modi l’infinito, evidentemente l’altro volto dell’abisso di fronte al quale l’anima concepisce sgomento. Si tratta del paradosso che Bodini perfettamente coglie osservando la febbre edificatoria che fece della sua città, tra Seicento e Settecento, quello ch’egli definisce «un carnevale di pietra», cioè un mascheramento collettivo, un immane atto di esorcismo, ma anche di nascondimento là dove la bellezza si affaccia sulla soglia dell’infinito che può essere nulla, angoscia, vertigine, vuoto, fascinoso richiamo o anche spaventoso, in un’ambiguità barocca da un lato, ma anche estremamente moderna dall’altro.

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