Disse una volta Theodor W. Adorno che dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile fare poesia. Probabilmente non aveva ragione. Anzi, sicuramente non aveva ragione. Perché dopo Auschwitz la poesia si carica di un valore ulteriore. Diventa indispensabile, essenziale. Perché fare poesia significa sprofondare nella materia delle cose, nelle cause dei fatti, degli eventi, per scoprire che cosa li ha generati, per rintracciare i motivi, i moventi delle storie. Significa avventurarsi nella ricerca di quelli che sono gli itinerari di pensiero che percorre l’umano per rendersi conto in quali punti si verificano le deviazioni, in quali punti si spalancano i baratri, in quali si stringono i nodi in un modo che poi sembra non si possano sciogliere più. E’ in quelle situazioni, in quelle condizioni, che si ha l’impressione che la poesia non possa servire a niente, non abbia alcuna funzione. Invece è proprio nei tempi in cui le circostanze si fanno groviglio che la poesia consente la possibilità di elaborare nuove visioni della realtà, di maturare diverse esperienze, di riprendere e rifondare i significati che la Storia ha prodotto correlandoli agli avvenimenti, alle evidenze. E’ proprio nei tempi che richiedono – che pretendono – una comprensione più profonda che la poesia si fa strumento di scandaglio delle profondità. Perché tutto quello che riguarda l’umano si compone di apparenza e di sostanza, di superficie e di profondità, di verità e di finzione, o di menzogna. Allora la poesia è quell’azzardo del linguaggio che va oltre l’apparenza delle cose per individuarne il nòcciolo, il lievito, la sostanza, che perfora la superficie per arrivare ai significati più profondi, quelli che nascondono inquietanti relitti o abbaglianti meraviglie di idee. Strappa le maschere della finzione, rivela le lusinghe della menzogna, si addentra nei nascondigli della Storia per riportare alla luce l’ obliato, il rimosso.
C’è un luogo comune secondo il quale la poesia è una allontanamento o una separazione dalla realtà, una fuga dalla concretezza, un divagare nei territori inconsistenti dell’immaginazione. Ma è falso, come tutti i luoghi comuni. La poesia è l’esatto contrario. Perché ha una relazione effettiva e strutturale con la storia, con quella di tutti e con quella personale, perché ha a che fare con il nostro affaccendarsi quotidiano, con tutto quello che ci è accaduto, che ci accade, dentro e intorno. Nella Lettera al Signor Chauvet, Alessandro Manzoni si chiedeva che cosa ci dà, in sostanza, la storia. “Avvenimenti noti, per così dire, solo esteriormente; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e insuccessi, i discorsi con i quali hanno fatto e cercato di far prevalere le loro passioni e le loro volontà su altre passioni e altre volontà, con i quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, con i quali in una parola, hanno manifestato la loro individualità, tutto ciò, tranne pochissimo, è passato sotto silenzio dalla storia, e tutto ciò forma il dominio della poesia”.
Allora, la poesia è una maniera di confrontarsi con il tempo, con tutto quello che il tempo porta e comporta, con i suoi misteri e le sue rivelazioni, con le illusioni e le disillusioni, gli incanti e i disincanti, le sue turbolenze e le sue passioni.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 17 marzo 2024 col titolo Poesia e prosa per comprendere gli uomini e il tempo]