di Antonio Errico
Nel 1999 la XXX Sessione della Conferenza Generale Unesco ha istituito la Giornata Mondiale della Poesia che si celebra il 21 di marzo.
Spesso accade che ci si chieda a che cosa serve la poesia, oppure se ancora serva a qualcosa in un tempo arrogante, borioso, indifferente, sotto l’impero tecnologico, nel contrasto vergognoso di opulenze e di miserie. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisonomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.
La poesia (quella vera, perché esiste anche la poesia falsa, l’esercizio senza alcun significato) è sempre stata un’esperienza di liberazione e di libertà. E’ questo che deve indispensabilmente continuare ad essere, conformandosi ai volti innumerevoli dell’Altro, ascoltandone le voci e i respiri, urlando contro le ingiustizie, le sofferenze, i qualunquismi, contro ogni sopruso, contro ogni ipocrita silenzio. Deve indispensabilmente continuare ad essere poesia onesta. Lo diceva Umberto Saba in una prosa, agli inizi del secolo passato, nel 1911: ai poeti non resta altro da fare che la poesia onesta.
Allora ci si potrebbe chiedere se esista una poesia disonesta. Certo che esiste. E’ quella di corte e di cortile, quella che si parla addosso, che lascia qualcuno esattamente come lo ha trovato, quella che non provoca il pensiero, l’indignazione, la rabbia, che non scuote la sonnolenza, non intima l’allerta, che non spaventa chi con essa ha una relazione, prima di ogni altro colui che la pensa, nello stesso istante in cui la sta pensando.