Perduta ogni sponda, l’ansia s’impossessò di me. La linea d’orizzonte era immobile, e mi sforzavo a non guardarla, ché mi dava netta l’idea di quanto il traghetto la superasse per poi sprofondare prima di risalire, ma era l’unico elemento fisico da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo o ero io indisponibile ad obiettivi diversi; eppure bastava chiudere gli occhi, in abbandono! Il traghetto avanzava a fatica, sferzato dal vento scarrocciava e ogni tanto le eliche rombavano a vuoto. Quei passeggeri che ad inizio viaggio s’erano appoggiati al parapetto di prua, ben presto si defilarono, spazzati da violenti spruzzi d’acqua; altri facevano su e giù dai bagni forse per non aver preso anzitempo tisane di melissa o altro. Mia moglie ammirava il mare estasiata. “E’ suggestivo”, ripeteva nella sua incoscienza. Io lo guardavo con astio. Nell’aria percepivo il rischio d’una sciagura e la situazione oggettiva non mi dava motivo d’assumere atteggiamenti disinvolti; al contrario, mi rendeva stranito. Pensai a quei viaggi senza ritorno e sciolsi una preghiera che presto la mia razionalità rifiutò per lasciare spazio a blasfemie volgari. Se la mia sorte è segnata – pensai – scriverò un messaggio da chiudere in una bottiglia e gettare in mare; ne formulai il testo: “E’ perito un uomo, dalla barba incolta e canuta, che amò il mare, lo visse e ne interloquì toccando l’Oltre; beffardo il mare ha posto fine ai suoi giorni”. Mentre scrivo, riaffiora la tensione di quelle ore, la mia pavidità mal celata; evoco il pericolo reale di andare a fondo, quel parlottio disinvolto dei passeggeri, e mi disapprovo una seconda volta: sembrava fossi l’unico a farsela addosso.
Si navigava da ore senza il conforto d’una presenza; solo sul tardi incrociammo un traghetto e dirottai pensieri e cono visivo: la scia bianca prodotta dal turbinio delle eliche si confondeva nella spuma diffusa. Pensai alle coste sarde da scoprire, alle pescate che m’attendevano e allentai la tensione; poi un’enorme sagoma scura troneggiò in lontananza e mi rasserenò.
Approdammo a Golfo Aranci: un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. Toccata terra m’inchinai a baciarla, suscitando l’ilarità del mio gruppo. Dopo le operazioni di rito, ci dirigemmo al residence, ubicato alla periferia di Porto Rotondo. La notte passò tranquilla. Il giorno dopo cominciai a perlustrare la zona, alla ricerca d’un posto dove poter pescare: cale e scogliere radenti il mare. Che delusione! Avevo due canne da pesca, una busta d’ami, piombini e galleggianti, un rotolo di filo; mi mancava la canna da lancio, più adatta a quelle rive. Porto Rotondo, a staffa di cavallo con imboccatura stretta e poi a ruotare, era l’unico posto dove poter pescare.
Al terzo giorno dal nostro arrivo, partecipammo ad un’escursione per l’arcipelago della Maddalena. Prima tappa: isola Santa Maria. Attraccammo al piccolo molo ch’era già l’ora di pranzo e ci venne offerto un piatto di penne al sugo; una di queste mi cadde e subito la buttai in mare e bastò perché arrivassero pesci da tutte le direzioni. Chiazze argentate brillavano più a fondo, frenetiche boghe in superficie. Avevo nel marsupio dei crackers, ami e filo; ne presi un paio di metri, legai un amo a cui infilzai un frammento di salatino attraverso il piccolo foro e calai, tenendo in mano la lenza. Una grossa boga abboccò vorace, poi un’altra e un’altra ancora. Elettrizzato, speravo di continuare su quella piega, quando un signore mi s’avvicinò intimandomi di smettere e tornò da dove era venuto. Scendemmo a terra ma, di lì a poco, una voce avvertì col megafono di salire a bordo per il prosieguo dell’escursione. Salpammo, destinazione isola di Budelli (spiaggia rosa), ma i miei pensieri rimasero ancorati a quel che avevo visto e lasciato. Costeggiando, ci venne indicata villa Certosa immersa nel verde. Giunto al residence, controllai una cartina: arcipelago circoscritto da un bel tratteggio in rosso, perché parco protetto. Spiegato l’arcano.