Come sempre accade in Annino il titolo non è esornativo, ma corpo unico col testo, per cui il gerundio di “guardando Hopper” suggerisce un atto prolungato che è un guardare concentrando la mente e lo sguardo: dunque la contemplazione di un’opera d’arte è anche atto conoscitivo. Ovviamente non importa sapere quale opera del pittore nordamericano sia oggetto della meditazione, è più probabile che ci si possa riferire all’iconologia hopperiana e alle atmosfere create dai dipinti; «loro due» saranno allora due figure (e nell’opera di Hopper si tratta spesso, lo sappiamo, di un uomo e di una donna), apparentemente estranee l’una all’altra o, almeno, ognuna di esse concentrata in sé stessa e assorta nel proprio silenzio. Ed ecco allora il pittore che sapeva dipingere il silenzio, o meglio, il silenzio stesso divenire l’oggetto della meditante concentrazione esercitata dalla poetessa, proprio il «silenzio ch’è / l’udito maggiore», verso che parafraserei con “silenzio che è / (ciò che viene) maggior(mente) udito (percepito)”; ma tra i due «corre vento», s’instaura quindi un qualche rapporto. Un soggetto non esplicitato, forse uno dei due, «si sente / le mani infinite già dentro / lo spirito»: non è una novità per la poesia di Cristina Annino, (nella quale l’estremizzata e contemporaneamente concretissima visionarietà e libertà concettuale hanno un ruolo fondante), che gli arti s’allunghino per “penetrare” nel corpo o nello spirito, forse alludendo al rapporto che cerca d’instaurarsi fra due persone o, nel caso delle mani, al tentativo di afferrare qualcosa.
Sempre lo stesso soggetto non esplicitato «ascolta / nell’aria le mosche» «spaccare in volo la trave», perché nel mondo della poetessa aretina (e del suo ormai classico alter-ego maschile e iberico) lo spazio sembra non avere le tradizionali tre dimensioni, ma piuttosto sembra moltiplicarle, per cui il silenzio di partenza è udibile non in sé stesso, ma proprio tramite suoni non-suoni, quale può essere il volo di due mosche (non a caso «basta / un paio») così concentrato e determinato, quindi visibile e concreto, tale da spaccare la trave. C’è ora un «tronco docente di / dolore» (l‘aggettivo/participio “docente” richiama per forte assonanza un “cocente” dolore, ma qui è un dolore che insegna e che l’allitterazione do-cente / do-lore rimarca) verso cui innalzare il viso e da masticare, ché il corpo del soggetto taciuto riconosce quel dolore, sa che la natura del legno così come quella della carne è comune e nella poesia di Annino anche lo sguardo è capace di “masticare” in quanto, l’ho già suggerito, le metafore vengono come ulteriormente contratte, i passaggi descrittivi o esornativi saltati a pie’ pari.
Annino non vuole descrivere o rappresentare Hopper (la cosa sarebbe per certi versi banale o pleonastica), ma, e ciò penso sia un modo originale e personalissimo di attuazione dell’ékphrasis, inventa all’interno del suo libro un “testo hopperiano” perfettamente coerente con l’intero sviluppo della raccolta poetica stessa. Se Annino dice la solitudine, la difficoltà dei rapporti interpersonali, l’istintività animale forse molto più liberatoria di quanto non sappiano esserlo le sottigliezze psicologiche e le velleità intellettuali degli umani (il gatto Kokò protagonista di più di una composizione del libro), lo fa rappresentando il soggetto taciuto con lo sguardo levato verso l’alto e qui non trascurerei il fatto che molti personaggi del pittore nordamericano posseggono proprio questo sguardo apparentemente tutto assorto in sé o perduto lontano, che spesso si spinge ben oltre una finestra o una soglia; il personaggio di Annino mastica «con gote di / grazia orrenda o legna / di camino un focaio» (mi pare di poter intendere: o come il fuoco mastica/divora la legna da ardere) la trave/tronco e anche nella scelta del sostantivo tronco è riconoscibile un uso del linguaggio capace di sviscerarne le implicazioni più riposte o quelle apparentemente neutre: si può pensare al tronco tagliato dell’albero e trasformato in trave, ma pure al tronco in quanto busto del corpo umano, alla rigidità fisica di certi personaggi hopperiani, alla fissità sospesa degli interni (stanze, bar…..) o degli esterni (marine, strade cittadine, distributori di carburante).
E quasi sul finire del libro e come in una simmetria nella distribuzione dei testi ritorna Hopper esplicitamente citato, benché quella sua luce inquietante e riconoscibile, quel suo rappresentare il rumoroso silenzio e l’affollata solitudine della nostra contemporaneità attraversi l’intera raccolta e si connetta a tutti i libri recenti dell’autrice toscana.
Scrive Annino al termine di una complessa meditazione (ovviamente condotta nel suo personalissimo linguaggio poetico) sul realismo nell’arte: «Ecco! io che / vivo nel trecento asciutto, ma / anche vedo il tormento di Hopper» (pag. 64), stabilendo, credo, un rapporto diretto tra il suo tentativo di lucida meditazione e la partecipazione emotiva al tormento provocato nel soggetto senziente dal mondo, visto che proprio una poesia (ma solo apparentemente!) antirealistica come questa usa invece il linguaggio poetico per denunciare e infrangere le convenzioni percettive e comunicative dominanti, approdando o cercando di approdare a un di più di conoscenza e consapevolezza sia percettiva che speculativa.