Il virus è costituito da una piccola quantità di RNA virale che non permettendogli di replicare, viene avvolto, a mo’ di mantello, dal virus B per farlo diventare infettivo e penetrare all’interno degli epatociti (Figura 1). L’interazione tra i due virus è complessa; la replicazione del virus D può competere con la comparsa dei marcatori del virus B o bloccare la replicazione del virus HBV.
L’HDV si diversifica in 8 genotipi; il genotipo 1 è quello maggiormente diffuso a livello mondiale ed anche in Italia; il genotipo 2 è presente in Asia, Sud-Est Asiatico, Russia; il tipo 3 prevale in Sud America; il tipo 4 in Giappone e Taiwan; il tipo 5, 6, 7, 8 prevalentemente in Africa. L’HDV è endemico nei paesi mediterranei, in Medio Oriente, in Africa, nell’Asia centrale, Sud America e rappresenta un importante onere sanitario nell’Europa Centrale dove la sua prevalenza è dovuta all’immigrazione di individui provenienti dalle aree altamente endemiche.
I soggetti immuni dall’HBV, che hanno acquisito spontaneamente o per vaccinazione l’anticorpo contro HBs Ag, sono protetti dal virus dell’epatite D; quindi l’HDV può essere presente solo nei soggetti che nel sangue hanno il virus B e per dare il danno epatico occorre una infezione in atto.
Chi può contrarre il virus dell’epatite D?
– soggetti non immuni al virus B dell’epatite (HBV);
– quelli affetti da epatite cronica HBV;
– tossicodipendenti che assumono droghe per via parenterale;
– emofilici di vecchia data, a causa delle emotrasfusioni;
– emodializzati di vecchia data, a causa delle emotrasfusioni;
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-operatori sanitari (non sono a rischio se vaccinati per il virus B; ma il personale HBs Ag positivo può sovra-infettarsi con il virus D durante l’assistenza ad un paziente infetto da HD);
– partner sessuali di persone infette;
-coloro che si fanno tatuaggi o piercing usando materiale infetto; -individui che hanno ricevuto trasfusioni di sangue ed emoderivati prima del 1987;
-conviventi con persone infette dal virus B dell’epatite. (I conviventi HBs Ag negativi non si possono considerare a rischio, se vaccinati per l’epatite B);
-chi viaggia per motivi di lavoro o per turismo nei Paesi dove il virus D è particolarmente diffuso;
Trasmissione del virus dell’epatite delta:
1.contatto con sangue e fluidi corporei di una persona infetta da HDV;
2. rapporti sessuali non protetti con soggetti infetti da HDV;
3. condivisione di aghi, siringhe per inoculo di droghe o per farsi tatuaggi o fori a i lobi auricolari e alle cartilagini nasali;
4. uso promiscuo di oggetti per l’igiene personale (spazzolino da denti, forbici, tagliaunghie, rasoi, ecc.);
5.possibile, anche se rara, la trasmissione materno- fetale.
L’infezione da HDV è in via di esaurimento negli Italiani grazie al controllo ottimale dell’HBV raggiunto con la vaccinazione resa obbligatoria nel 1991; quindi il virus B e di conseguenza il virus D sono quasi assenti nei soggetti da 0 a 40 anni; rimane una piccola coorte rappresentata dai soggetti senescenti con epatopatia cronica avanzata HBs Ag positiva, nonché dai soggetti non vaccinati. La malattia è più frequente nelle persone di età superiore a 45 anni e nei giovani non nati in Italia, ma in Paesi dell’Est Europa e dell’Africa, dove il tasso vaccinale per HBV è più basso e, di conseguenza, la prevalenza di HDV è più alta.
Le modalità con cui uno ci si può infettare con il virus D:
1) co-infezione (infezione contestuale di HBV e HDV), quindi il paziente contrae contemporaneamente i due virus); l’infezione nel 90-95% dei casi si risolve spontaneamente con l’eliminazione di entrambi i virus, ma nel 5% può evolvere in epatite acuta grave, cha a sua volta può cronicizzare o avere un decorso fulminante; nelle co-infezioni l’HDV sembra inibire o sopprimere la replicazione del virus B. La co-infezione di HDV e HBV determina una malattia acuta più grave dell’infezione isolata del virus B e si associa ad un aumentato rischio di insufficienza epatica fulminante. L’infezione da HDV dovrebbe essere sospettata quando si è in presenza di una infezione fulminante da HBV, di infezioni acute da HBV che migliorano e che poi danno episodi successivi di riacutizzazione.
2) super-infezione (il soggetto HBV positivo si espone all’agente HDV): nel 70- 80% dei casi si ha la cronicizzazione e la possibile evoluzione in cirrosi e epatocarcinoma. L’infezione da HDV tende ad aggravare la sottostante infezione da HBV cui si sovrappone. La sovra-infezione può causare un improvviso aumento delle transaminasi in un quadro di epatite cronica B con transaminasi normali o di poco elevate. Le forme croniche possono essere asintomatiche o con sintomi lievi fino allo sviluppo delle complicanze, che potrebbero comparire anche anni dopo l’infezione.
Sintomi
Il periodo di incubazione dell’infezione HDV è in media di 35 giorni. Spesso i soggetti con infezione acuta da virus B e D non hanno sintomi e quindi non si rendono conto di aver contratto l’infezione. Se si sviluppano disturbi, di solito entro 3 mesi dal contagio, essi possono consistere in: dolori muscolari, dolori articolari, malessere, astenia, perdita di appetito, febbre, nausea, dolori
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addominali, urine scure, subittero e/o ittero, prurito cutaneo. La maggior parte dei pazienti, in caso di co-infezione, tende ad eliminare il virus D, mentre in caso di sovra-infezione, il 70-80% sviluppa una grave infezione cronica con un rischio maggiore a sviluppare insufficienza epatica fulminante.
La forma cronica può non causare alcun disturbo evidente per lunghi periodi, e gli esami del sangue possono evidenziare solo un lieve movimento delle transaminasi; intanto la malattia evolve in cirrosi compensata prima e scompensata poi per compensa di ittero, ascite, edemi agli arti inferiori ed evolvere anche in epatocarcinoma.
Diagnosi
Importanti sono l’anamnesi e l’esame obiettivo; gli esami ematochimici come transaminasi, gamma GT, bilirubinemia totale e frazionata, anti-HDV, HDV-RNA qualitativo e quantitativo.
La diagnosi di epatite cronica D è suggerita dalla presenza di HBs Ag nel siero in associazione ad elevati livelli di anti – HDV e la dimostrazione di HDV RNA quantitativo. Gli anticorpi HDV possono essere della classe IgM (essi compaiono dopo circa 2-5 settimane) e dopo altre due settimane compaiono gli anticorpi della classe IgG; tuttavia, questi ultimi possono comparire anche alcuni mesi dopo l’infezione acuta. Quindi è importante la determinazione sia degli anti HDV totali, sia di quelli della classe IgM (presenti in fase acuta o in convalescenza) e della classe IgG (pregresso contatto). Nelle sovra-infezioni si osserva una rapida e sostenuta produzione di anti HDV sia di tipo IgM che di tipo IgG. Nella sovra-infezione che si risolve gli anti HDV IgM calano rapidamente e gli anti IgG persistono per alcuni mesi. Nelle forme che evolvono cronicamente l’HDV RNA persiste positivo e gli anti – HDV persistono entrambi a titolo elevato. Gli anti HDV non rimangono a lungo positivi dopo l’eliminazione dell’HBsAg ad eccezione dei tossicodipendenti, nei quali la presenza dell’anti – HDV persiste anche dopo intervalli prolungati dalla co infezione. Se L’HDV-RNA risultasse negativo in pazienti HBsAg positivi, che hanno un aumento delle transaminasi ed una progressione del danno epatico, è bene ripetere il test HDV-RNA.
Stadiazione dell’infezione
Si stima che circa il 26% dei soggetti con infezione cronica HBV non sia stato testato per HDV. E allora si consiglia:
1. tutti i soggetti HBsAg devono essere sottoposti al test anti-HDV totale;
2. in caso di positività per anti HDV si deve fare la ricerca dell’HDV-RNA qualitativo e quantitativo; la positività per anti HDV e HDV-RNA quantitativo indica una infezione cronica da HDV;
3. per i soggetti anti-HDV positivi, ma HDV-RNA quantitativo negativo, la negatività di quest’ultimo va valutata con cautela, specie quando si tratta di soggetti che provengono da Paesi africani e dell’Est Europa;
4. si consiglia la completa caratterizzazione del virus B (HBs Ag quantitativo, HBeAg/ anti HBe, HBV-DNA quantitativo);
5. si consiglierebbe anche il genotipo del virus HDV e la determinazione quantitativa dell’Ag HDV; tuttavia, al momento attuale, non sono raccomandabili;
6. ecografia epatica per valutare la presenza o meco di cirrosi;
7.elastogramma o fibroscan per valutare la presenza o meno di fibrosi;
8. EGDS per valutare la presenza o meno di varici esofagee;
9. biopsia in casi particolari.
Terapia
Per molti anni la terapia disponibile per l’epatite delta è stato esclusivamente l’Interferone alfa ricombinante, con controindicazioni ed effetti collaterali. La
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somministrazione di interferone ricombinante, somministrato alla dose di 9 milioni, sottocute, 3 volte la settimana per 48 settimane, induceva la
normalizzazione delle transaminasi e la negativizzazione dell’HDV-RNA nel 71% dei pazienti trattati; nel 50% dei casi si constatava una risposta combinata (biochimica e virologica), ma sfortunatamente questa era mantenuta solo nel 21% dei pazienti dopo alcune settimane dalla sospensione della terapia. Analizzando tuttavia i dati dopo 10 anni, i ricercatori sostenevano che i pazienti trattati con Interferone, rispetto a quelli non trattati o trattati con dosaggio più basso, avevano una migliore sopravvivenza, una maggiore inibizione della replicazione dell’HDV e inoltre, alla biopsia epatica, mostravano una significativa regressione della fibrosi, anche se poi tutti denotavano una ripresa della viremia. Successivamente, l’uso di interferone peghilato, alla dose di 180 ug per via sottocute, una volta la settimana per 48 settimane, era in grado di ridurre o azzerare la viremia HDV e normalizzare i valori delle transaminasi nel 17-47% dei pazienti, ma solo nel 25% di essi era mantenuta la risposta a 24 settimane dopo la fine del trattamento. L’interferone era sconsigliato nella cirrosi scompensata; prima della terapia bisognava escludere la presenza di una tireopatia, e nel corso del trattamento poteva svilupparsi una epatite autoimmune che complicava ulteriormente l’andamento della malattia.
I NUC analoghi necleosidici (entecavir, tenofovir), in grado di bloccare la replicazione dell’HBV, non hanno alcuna efficacia sull’HDV sia in monoterapia sia in associazione con interferone peghilato; tuttavia questi farmaci possono essere usati per controllare la replicazione del virus B ed evitare incrementi di citonecrosi indotta dall’HBV.
Altro farmaco è il lonafarnid (Zokinvy) usato per via orale; riduce significativamente la replicazione del virus D in modo dose dipendente; infatti la dose più efficace era 200 mg due volte al giorno con importanti effetti collaterali (nausea, vomito, diarrea, calo dell’appetito, affaticamento, infezioni ecc); la riduzione a 100 mg per 2 volte al giorno in monoterapia o in associazione ad interferone o a tenofovir riduceva la carica virale HDV, ma persistevano gli effetti collaterali.
Nell’aprile 2023 l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha approvato la rimborsabilità del Bulevirtide, come farmaco innovativo per la terapia dell’infezione cronica da HDV; il farmaco inibisce l’ingresso dell’HDV nelle cellule epatiche, riducendo l’insorgenza di necrosi epatica e dei livelli sierici di HDV-RNA. Questo nuovo farmaco (Hepcludex) “costituisce una svolta rivoluzionaria per i pazienti affetti da questa patologia, poiché ha la capacità di bloccare la replicazione dell’infezione permettendo loro di sopravvivere”. È ciò che dice il prof. P. Lampertico, ordinario di Gastroenterologia dell’Università Statale di Milano, e ancora “la novità terapeutica rappresenta un grande successo per la comunità epatologica, rappresenta un progresso rivoluzionario perché permette di trattare anche senza interferone pazienti che prima non potevano ricevere alcuna terapia”. Il farmaco era stato autorizzato dall’EMA (European Medcine Agency) nel giugno 2020 per il trattamento dell’epatite cronica D compensata, alla dose di 2 mg/die per via sottocutanea. È controindicato nei pazienti con malattia scompensata e in gravidanza; le donne in età fertile devono adottare misure contraccettive. Gli studi in monoterapia con bulevirtide a 24 settimane di terapia mostrano una risposta biochimica e virologica nel 50% dei pazienti trattati. Il prolungamento della terapia a 48 settimane comporta una riduzione della viremia nel 70% dei pazienti, la normalizzazione delle transaminasi ALT nel 50-60% ed una risposta combinata (virologica e biochimica) nel 45 % dei casi. Nei soggetti cirrotici e con segni di ipertensione portale si osserva anche una riduzione dei livelli sierici di gamma globuline ed un aumento dell’albuminemia. E’ stato condotto una studio con
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Bulevertide alla dose di 2 o 10 mg/die per 76 settimane dimostrando che il farmaco è ben tollerato, sicuro ed efficace con una riduzione lineare dell’HDV RNA dose dipendente; come effetto collaterale viene segnalato un aumento significativo ma asintomatico degli acidi biliari, compatibile con il meccanismo di azione del farmaco. È importante la possibilità di dare questo farmaco a pazienti non trattabili con interferone; il bulevirtide rappresenta la prima ed unica alternativa al trapianto di fegato.
Il bulevirtide dà una significativa riduzione della viremia da HDV e delle transaminasi in circa il 50% dei trattati e miglioramento del quadro clinico anche in pazienti con malattia scompensata. Durante la terapia è importante eseguire l’ecografia epatica ogni 6 mesi per la sorveglianza dell’HCC; controllare le transaminasi e la viremia HDV quantitativa ogni 2 mesi per i primi 6-12 mesi e poi ogni 3 mesi. Per quanto riguarda la terapia, la durata non è nota; si è osservato che la sospensione del trattamento dopo 48 settimane comporta nella maggior parte dei pazienti trattati una recidiva; l’EMA raccomanda di continuare il farmaco fino a quando si osserva un miglioramento clinico della malattia. La sospensione della terapia può essere presa in considerazione in caso di prolungata negativizzazione dell’HBsAg (3-6 mesi), di perdita di risposta virologica e biochimica o di effetti collaterali. Il prolungamento della monoterapia per 72-96 settimane determina un progressivo incremento della risposta virologica o biochimica o combinata. Alcuni ricercatori hanno dimostrato nei loro studi che la terapia prolugata per 3 anni incrementa i risultati positivi virologici e clinici. Infine, l’efficacia del bulevirtide non sembra essere influenzata dal genotipo HDV.
Le persone malate di epatite D dovrebbero:
– evitare l’assunzione di alcool;
– usare precauzioni per evitare la diffusione della malattia al partner sessuale tramite i fluidi corporei;
– non donare sangue, sperma, tessuti;
– avvisare il medico e il dentista;
– concordare con il medico l’assunzione di altri farmaci;
– consultare il medico se si desidera avere un figlio, in quanto la trasmissione verticale madre-figlio, anche se rara, è possibile.
Profilassi
1. Il primo passo da fare è la diffusione delle informazioni sulla malattia, sulle sue complicanze, sui fattori di rischio;
2. importante è la campagna di vaccinazione per l’HBV. La prevista eliminazione dell’infezione HBV avrà come conseguenza nel prossimo futuro l’eliminazione dell’HDV;
3. non esiste un vaccino per il virus D, ma dal momento che l’HDV può essere contratto o contemporaneamente o in presenza di una preesistente infezione B, le persone che hanno ricevuto il vaccino antiepatite B sono automaticamente protette dall’infezione D;
4. per la profilassi è importante seguire alcune norme di igiene e di comportamento; la convivenza con persone infette non è rischiosa, purché non si faccia uso di rasoi, spazzolini, forbici ed altri oggetti che possono essere contaminati con sangue infetto;
5. usare il preservativo in caso di rapporti occasionali o con più partner sessuali;
6. coprire eventuali tagli e ferite cutanee;
7. non donare sangue, sperma, tessuti se si è infetti;
8. evitare lo scambio di oggetti personali per l’igiene e la cura personale (pettini, spazzolini ecc);
9. evitare tatuaggi e piercing con aghi infetti;
10. informare il partner dell’infezione e raccomandare l’esecuzione del test.
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L’epatite D non è trasmessa dal bacio sulla guancia, dall’abbraccio, dalla stretta di mano, dallo starnuto, dal colpo di tosse né dal condividere stoviglie, cibo e posate.
Infine, la possibilità di dare oggi un trattamento specifico, ben tollerato ed efficace ha migliorato il rapporto medico- paziente. Loscoraggiamento di prima, legato alla notizia della presenza dell’infezione, oggi con la cura è sostituito quasi sempre da una speranza.
La giornata mondiale delle epatiti, che si celebra ogni anno il 28 luglio, è promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la diffusione di informazioni utili alla prevenzione, alla diagnosi ed alla cura delle epatiti croniche virali. Per lo screening la proroga era fino al 31 dicembre 2023 ma,
considerando le inadempienze di diverse regioni colpite dagli strascichi del Covid-19 e da altre contingenze, è auspicabile una ulteriore proroga di altri due anni ed un allargamento delle fasce di età delle popolazioni da sottoporre al test della comunità scientifica per poter realizzare l’obiettivo dell’OMS tendente eliminare la minaccia dell’epatite entro il 2030.
Come si può contrastare il problema delle epatiti? Da un lato con i test diagnostici e i percorsi di avvio alle cure, sempre più rapidi e semplificati, e dall’altro lato con lo screening alla scoperta del sommerso. La prof. Brunetto al Congresso EASL (European Association for the Study of the Liver) di Vienna del 2023 asserisce: “per la ricerca del virus D sono da controllare tutti i soggetti HBsAg positivi perché potrebbero avere una infezione D latente”; questo permette “di identificare le fasi più precoci della malattia, selezionare i soggetti più giovani ed avviarli ai centri per la terapia con la speranza di prevenire la progressione alla cirrosi, così frequente nella storia naturale della malattia”. Una particolare attenzione va fatta per i migranti, specie quelli irregolari che vengono soprattutto dall’Est europeo o da alcuni Paesi dell’Africa: essi sono molto giovani, quasi mai trattati, ma hanno una malattia molto attiva e spesso evoluta in cirrosi. E questo perché la profilassi vaccinale per l’epatite B in questi Paesi è partita in ritardo. Il problema importante è che la malattia dei migranti può aumentare la presenza di malattia nelle persone del Paese ospitante.
Anche la prof. Quaranta e i suoi collaboratori dicono: “la recente introduzione di nuovi farmaci anti HDV rappresenta un importante traguardo per la cura che impone un maggior sforzo per far emergere il sommerso dell’HDV e garantire un immediato accesso alle cure. La co-infezione HBV/HDV causa la forma più grave di epatite virale, caratterizzata da una rapida progressione verso la cirrosi e l’epatocarcinoma, che spesso richiede un trapianto di fegato o provoca la morte in giovane età”. Recentemente sono state prodotti dall’Associazione Italiana per lo studio del fegato (AISF) e la Società Italiana di Malattie infettive e tropicali (SIMIT), i percorsi diagnostici – terapeutici nazionali sulla co-infezione HBV/HDV, nell’ambito del piano nazionale epatite del Ministero della Salute.
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