Un gruppo di ragazze e ragazzi festeggiava allegro la fine degli esami (questo mi sembrò di capire). Incrociai i loro sguardi: bianche vele pronte a dispiegarsi. A Donatella (così la chiamavano, ne ricordo ancora il volto, lo sguardo, il taglio delle labbra e quel suo atteggiarsi che ostentava una sensualità disinibita) e a tutto il gruppo augurai mentalmente cose belle. Avrei voluto intrattenermi con loro, dirgli che la maturità che avevano conseguito era solo l’inizio e che altra maturità li attendeva, attraverso tappe in salita e sonore sconfitte, ma lasciai perdere per non turbare quell’atmosfera gioiosa.
“Io scendo qui”, disse Ernesto, indicandomi una bassa scogliera a ridosso della piazzetta; “tu vai di là, dopo la spiaggia troverai scogliera e posta”, e m’indicò la direzione con l’indice teso. La notte spalmava tutto di nero e mi sentivo un allocco che andava alla ricerca d’un qualcosa d’ignoto, col peso dell’esca, la torcia funzionante a malapena e l’afa, l’afa che lo faceva sudare come un dannato. Mi rimproverai d’aver sacrificato la libertà d’andarmene per conto mio. Attraversai un tratto ghiaioso (la spiaggia) rischiando più volte di rotolare a terra. Procedevo pensando al mio amico, così vago nel darmi le dritte, e mandai al suo indirizzo qualche parola blasfema. Intravidi la scogliera che da bassa andava a salire, e una busta bianca abbandonata mi fu d’indizio; giuntovi, posai i miei attrezzi. Non c’era un granché di spuma e il fondale mi era ignoto del tutto; davo per scontata solo la presenza di sorci notturni.
Il vento di sbieco mi portava odori più di macchia che di mare. Alle mie spalle, sull’altura, da una veranda accesa, le note d’una canzone mi evocavano una donna amata e perduta; la pensai per un attimo, poi approntai la lenza: galleggiante a un metro e mezzo dall’amo, niente piombi, filo da 0,20. La scelta si rivelò azzeccata. Quella notte, per la prima volta, star light a luce rossa. Buttai manciate di malote stropicciate tra le mani, prima di effettuare il lancio.
Avevo sperimentato sul mare che la corrente va quasi sempre controvento, sicché stabilii di dover lanciare in direzione della piazzetta, lasciata laggiù alla mia sinistra. Al primo tentativo si afferrò una grossa occhiata, poi altre ne seguirono di uguale pezzatura. “E’ notte propizia”, pensai, e poiché di tempo ne avevo a iosa, mi concessi una pausa, attuando i consigli avuti da un vecchio lupo di mare, Salvatore De Benedetto, di Giurdignano, alias Toto Pica. Enumerai mentalmente a chi distribuire il pescato, nel caso di molte prede: don Salvatore, l’ing. Franco, qualche amico; sempre fatto così, per il piacere di donare o di stupire. Il bottino era già a due cifre quando dalla piazzetta una torcia cominciò a mandare segnali intermittenti. Non ero certo che fosse Ernesto, ma il silenzio della notte m’aiutò a percepire un grido: veeengo? Era lui, amareggiato per non aver sentito una toccata di occhiate. Mi raggiunse e si posizionò alla mia sinistra, gomito a gomito, dove la corrente portava l’esca. Sbirciò nel mio cesto: “bei pezzi”, disse a denti stretti, poi lanciò. Una prima occhiata gli si afferrò vorace ed io…. niente, poi una seconda ed io niente, alla terza, che non capimmo mai a quale dei due ami avesse abboccato, i fili delle nostre canne si imbrogliarono e fu la fine.
L’alba s’affacciava dietro di noi.