Tra Carmelo Bene e Vittorio Bodini: Barocco del Sud (parte seconda)

Dal fondo del mio nudo cuore / dagli antri dell’oscura memoria / pietra dura / cavallo adolescente / dolce eretta figura / come memoria innocente // Occhio di gelo fisso /entro il mio occhio stancato / pietra inesorabile / da che secoli di pesanti ricordi / vieni a me / sinuosamente / a dirmi di annosi tormenti / sotto cieli sempre minacciosi / Oh ritornanti ombre / corrose affaticate / eppure ancora confidate / a ricorrenti affanni // Risentite masse / rilevate sagome / accentuati chiaroscuri / curvature di pesanti pareti / vasto spazio interiore / usati ordini / riprese modanature / cupe minacciose eppur care figure // S’è aperto uno spiraglio di cielo / s’intravede un non più vuoto firmamento /Alleghiamo aure respirabili / e più sicuri porti / Speranza non mai ingenua o sopita // Opposta esuberanza / impeto vivo / non sopita torsione / gesti pose compiaciute bravure / eburnea sottigliezza di trafori / crude luminosità / dalle oscurità fonde dell’ombra / rilevate masse / tagliate lame di luce traversa / intrise di colore accorto / obliterate non mai, obliterate non mai / alla mia stanca memoria // Volanti / gesticolanti figure / oppur minacciose ristanti / o accese per improvvisa leggerezza / vostra diuturna carezza / mi insegue / mi possiede / enumera possibilità e certezze / senza fine / senza pausa / o respiro / senza pietà / alla mia povera mente stanca che sa.

Ma la riflessione sul barocco di Bene, soprattutto verso la fine degli anni Sessanta, si nutre pure della frequentazione e delle discussioni con Bodini. Un altro documento singolare, venuto alla luce in questi ultimi tempi, è una conversazione sul barocco tra i due di cui resta la registrazione audio che risale probabilmente alla fine di quel decennio. In verità, è difficile estrapolare un senso compiuto dalle parole dei due che, “bevutissimi” anche in questa occasione, andavano a ruota libera nei loro pensieri. Ecco comunque un breve assaggio della parte finale della conversazione. Carmelo Bene sostiene: «Oggi il barocco si è trasformato in confusione… come interpretazione di un comportamento di massificazione nel senso che quello che allora era qualità nel barocco, oggi a tre secoli di distanza è diventata quantità». Bodini risponde così: «Mi pare che questo sia partire dalla identificazione totale del concetto di barocco col concetto di libertà e pertanto vedere tutta la storia a posteriori come una storia di richiesta di libertà». Bene replica infine: «Cioè avemmo allora una poesia barocca, oggi abbiamo una barocca historia»[6].

Nel 1970, dopo la realizzazione del film Don Giovanni, nel quale Bodini aveva interpretato la parte del marito “becco” dell’amante di don Giovanni, Bene gli chiese di parlargli del barocco e, in particolare, di spiegargli perché il barocco in Italia, ancora in quegli anni, almeno in certi settori della cultura, avesse un valore dispregiativo. Inoltre voleva sapere anche se e in che misura il suo film potesse considerarsi barocco, proprio perché un critico cinematografico l’aveva rifiutato aprioristicamente in quanto tale. Bodini rispose con una (stavolta) lucidissima Lettera a Carmelo Bene sul barocco[7], che si può considerare una vera e propria lectio magistralis su questo tema. Qui lo scrittore passa rapidamente in rassegna la fortuna critica del barocco che in Italia ha assunto un valore negativo a causa di una forma di «imperdonabile arretratezza culturale».

Essa è congiunta, alle radici – continuava Bodini – a quel pregiudizio classico che grava soprattutto su una cultura come la nostra che, avendo toccato il suo apice nell’età umanistico-rinascimentale, per una sorta di nazionalismo culturale, è riluttante a ammettere che possano esistere forme d’arte scaturite da idee distinte o addirittura opposte e le degrada al livello di “contrastile” o di “extrastile” (Croce), come se il loro manifestarsi non potesse essere altro che un tralignamento, un errore rispetto all’unico stile degno di tal nome, e cioè il classico[8].

 Ma il barocco – sostiene ancora lo scrittore – è proprio «la grande alternativa al mondo classico»[9], senza più le certezze dell’età umanistica e con l’angoscia che ne deriva. Esso diventa cioè «una condizione presente nel nostro spirito»[10]. Da qui il legame esistente tra Barocco e Novecento che egli mette in rilievo. E qui Bodini non si riferisce al barocco letterario italiano e a colui che ne è ritenuto il maggiore rappresentante, il Marino che ritiene piuttosto un «affrescatore post-rinascimentale». Il barocco italiano – sostiene ‒ è piuttosto «architettonico, scultorico, pittorico», e quindi conta sui nomi di Caravaggio, Bernini e Borromini. Accanto alle arti visive, a suo avviso, bisogna aggiungere l’aspetto scientifico e perciò anche il nome di Galileo. Insomma, come è stato osservato, Bodini condivise pienamente «quel processo di rivalutazione del barocco che anche in Italia è stato condotto da alcuni storici della letteratura nel tentativo di superare quella visione schizofrenica che tradizionalmente contrapponeva una letteratura ritenuta futile e superficiale, meramente ludica ed edonistica, a una scienza dotata di una risoluta e seria vocazione gnoseologica»[11].

Attraverso Bernini e Borromini, il barocco ha compiuto una autentica rivoluzione nelle arti dello spazio: «le strutture asimmetriche, le linee spezzate, il policentrismo, la novità degli scorsi, la preminenza dell’ombra sulla luce, il dinamismo […] – sottolinea Bodini ‒  erano tutti caratteri armonicamente e organicamente convergenti di una poetica corrispondente a una nuova maniera di intendere il mondo e la vita»[12].

Per quanto riguarda il barocco letterario – precisa ‒ esso «si chiama (col Galilei che vi sta di pieno diritto!)  Cervantes del Don Chisciotte, Góngora delle Soledades e del Polifemo, si chiama Quevedo lirico e Quevedo dei Sueños e del Buscón, e tutto il folto teatro da Lope de Vega a Calderón (soprattutto della Vida es sueño). Si chiama inoltre Baltasar Gracián, teorico delle nuove poetiche (Agudeza y arte de ingenio), così come Lope lo era stato del nuovo teatro»[13].

Per passare poi al film di Bene, lo definisce senza alcun dubbio «un’opera autenticamente barocca», nel senso però più positivo – precisa – che si deve dare a questo termine. Qui sono presenti «due simboli convergenti e dialettici […] i simboli che Jean Rousset battezzò coi nomi di Circe e del Pavone: la metamorfosi e l’ostentazione, il movimento e la decorazione». Ma nel Don Giovanni non bisogna vedere solo l’aspetto esteriore pavonesco, perché dietro di esso, il continuo movimento e proliferare di immagini, suoni, parole c’è un «disperato senso del vuoto che è ad esso sotteso e che si cerca con esso di colmare». E qui Bodini ritorna sul  concetto-chiave della sua interpretazione del barocco, cioè l’horror vacui, che è anche un aspetto importante della poetica di Bene, perché «tutto, in lui, e dappertutto nelle sue opere, pur costituendosi per superfetazioni di immagini, per paradossi, o calembour, per ostentate esibizioni iperletterarie, rimanda sempre ad un buco nero che tutte le inghiotte e che tutte le annulla»[14].

Inoltre – continua Bodini ‒ proprio come nella poesia barocca, c’è un’assoluta libertà del linguaggio rispetto al tema, «con una possibilità di invenzione che non ha limite e si esprime in metafore e ellissi provocatorie e brillanti». Insomma – conclude l’autore, rivolgendosi direttamente a Bene:

Se Góngora e Borromini e gli altri avessero potuto vedere  il tuo film non avrebbero mancato di accorgersi che il cinema è l’arte più barocca che ci sia perché in esso coi colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo  che essi perseguirono in forma mediata nella metafora, nei contrasti di elementi, nei chiaroscuri e con mille altri accorgimenti propri dei loro strumenti, con quella totale labilità e momentaneità delle immagini che corrono rapidamente incontro alla loro distruzione[15].

È stato notato anche che l’osservazione di Bodini sulla centralità del linguaggio e, in particolare,  sulla sua assoluta libertà nella poesia barocca come nel film «può essere applicata non solo al Don Giovanni, ma all’intera produzione letteraria di Bene»[16] e forse, si potrebbe dire, all’intera  sua produzione tout court. Non a caso, Bene aggiunge la seguente postilla alla Lettera, nella quale fa riferimento preciso a un intervento di Bodini sulla etimologia del termine “barocco” in cui richiamava le espressioni di “perla scaramazza” e “rupe scoscesa”[17] :

Il grande Barocco invece, “perla scaramazza”, ma soprattutto (di nuovo Bodini) scoglio irregolare riemerso nell’alto mare di tutti libri del mondo […] reinventa la critica del “pavone” come dolorosa disponibilità policentrica, “realismo gotico” e tutto quel che vi pare. Opera è l’operare sull’operato, al di fuori di sé e al tempo stesso in sé: questo “operantesi” chiameremo linguaggio, esattamente come nella vita – che ridere il “realismo” tre secoli dopo! … e come al solito l’Europa ha dovuto aspettare  due secoli e passa perché il decadentismo, in nome del metodo, facesse luce sulla stupidità del “Classicismo”[18].

 Lo scritto bodiniano, probabilmente, stimolò Bene ad approfondire ulteriormente la conoscenza del barocco, tanto è vero che rispondendo a una domanda, nel corso di una Conversazione dell’estate-autunno 1970, si soffermava sul “policentrismo” dell’arte barocca. Questo concetto  riprende quelli di «perdita del centro» e della conseguente «angoscia» che ne deriva, richiamati da Bodini nella sua Lettera:

La critica è l’arte. La critica che viene dopo l’opera è finita nel XVII secolo. L’arte moderna è nata nel XVII secolo. Veniva chiamata barocco. Voglio parlare del grande barocco spagnolo: Góngora, Cervantes, Calderón. La grande trovata dell’arte barocca è di aver scoperto la critica, di aver scoperto che era già stato detto tutto. Il sonetto di Shakespeare che passa nel Don Giovanni e quello che veniva scritto nello stesso periodo in Spagna sono la stessa cosa. La presa di coscienza che tutto è già stato detto e fatto, è l’inizio dell’angoscia. È cominciata con la morte di Dio. Il Rinascimento ha solamente spostato Dio e messo l’uomo al suo posto. Era egocentrico: in letteratura, in pittura, si trattava sempre di giocare su un solo piano. L’occhio e l’artista sceglievano una cosa che diventava il centro. Bisognerà aspettare Michelangelo per annunciare l’arte barocca, l’arte policentrica. Il secondo Michelangelo era molto lontano da Masaccio, Piero della Francesca, Paolo Uccello… Dubitava di se stesso, spostava già tutto, decentrava le cose. Il barocco vede ogni cosa da qui, da qui e da lì. Inaugura veramente la storia dell’angoscia. Se un gesto ne diventa un altro, che lo si sposti o lo si decentri ancora, il punto di vista diventa prismatico. È lo spirito critico. L’arte o lo spirito critico sono la stessa cosa. Il paradosso di Wilde secondo il quale «L’immaginazione imita, lo spirito critico crea» è vero. La critica barocca con cui comincia l’arte moderna è la stessa in Joyce. In Ulisse non si tratta di fare l’amore o altro. Le parole, le cose, sono degli appendiabiti che cambiano significato nella lingua. Il rosso diventa bianco, diventa nero, qualsiasi cosa si pone la questione e si ripropone. Dio è proprio morto[19].

In un’intervista del 1975, ritornava invece sul rapporto, controverso e spesso da lui disconosciuto,  col barocco della sua città, dandone stavolta un’acuta caratterizzazione: «Guardate il barocco leccese: tutto così arbitrario, così davvero anarchico, così folle. Ed era fatto da artigiani: non c’è una firma. In miniatura sarebbero gli stessi artigiani della pasta di mandorle»[20]. E anche qui  riprende termini e concetti usati da Bodini nella prosa Barocco del Sud («arbitrario», «folle», senza «una firma», cioè anonimo), a conferma ulteriore della decisiva influenza esercitata su di lui dall’amico e maestro.

            Ma per finire, vorrei accennare a un altro progetto, sempre del 1970, che avrebbe messo assieme Bene e Bodini: una riduzione televisiva del Don Chisciotte di Cervantes commissionata dalla RAI a Bene, con la traduzione dello scrittore leccese, che si era dichiarato d’accordo [21]. Il cast era davvero eccezionale: Bene doveva essere il regista e il direttore artistico; Eduardo De Filippo doveva avere[22] il ruolo del protagonista; il clown sovietico Popov, preferito da Eduardo al fratello Peppino che invece avrebbe voluto il regista, quello di Sancio Panza; Salvador Dalí, che egli era andato a trovare a Parigi per averne l’assenso, doveva curare i costumi e le scene. Il progetto, purtroppo, non andò in porto perché secondo il «genio manageriale» (così da lui definito) che prese questa decisione e la comunicò a Bene per telefono, venne ritenuto «impopolare»[23]. In tal modo il pubblico dei telespettatori venne privato probabilmente della possibilità di vedere un capolavoro o comunque, sicuramente, un’opera di grande fascino e suggestione.

[In Da questo altrove. Carmelo Bene e il Sud del Sud dei santi. Una cartografia, a cura di S. Giorgino e A. Paiano, Martignano, Kurumuny, 2023, pp. 39-58].


[1] C. Bene-G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 271.

[2]  Ghezzi, nel corso di un incontro, al quale prese parte anche Piergiorgio Giacché, tenutosi  il 6 dicembre 2004 presso i Cantieri Koreja di Lecce dopo la proiezione di Barocco leccese e di Hermitage,  sostenne che la «copia in possesso del centro sperimentale è la copia a colori». Si veda la trascrizione dell’incontro in… In effetti, il primo cortometraggio a colori di Bene è Hermitage, realizzato quello stesso anno, come si legge nella Vita di Carmelo Bene, cit., p. 263.

[3] V. Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), cit., p. 122.

[4] Riprendiamo le denominazioni delle statue che figurano sulla facciata della basilica, non sempre univoche negli studi ad essa dedicati, dal vol. Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, a cura di A. Cassiano e V. Cazzato, Galatina, Congedo, 1997.

[5] Ghezzi fece il nome di Riccardo Cucciolla nel corso dell’incontro già ricordato alla nota 23.

[6] La registrazione audio è stata trasmessa il 1° settembre 2020 in occasione  della manifestazione Bene, Bodini! Barocco del Sud, tenutasi il 1° settembre 2020 presso il Chiostro ex Convitto Palmieri di Lecce.

[7] Lo scritto di Bodini è stato pubblicato prima in C. Bene, L’orecchio mancante, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 138-143; ora figura in V. Bodini, «Allargare il gioco». Scritti critici (1941-1970), a cura di A. L. Giannone, Nardò, BesaMuci, 2021, pp. 174-180, da cui si cita.

[8] V. Bodini, Lettera a Carmelo Bene sul barocco, cit., p. 174.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] A. Battistini, Vittorio Bodini e il demone gnoseologico del barocco, in Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014). Atti del Convegno internazionale di studi (Lecce-Bari, 3-4, 9 dicembre 2014), a cura di A. L. Giannone, tomo I, Nardò (Le), Besa, 2017, p.187.

[12] V. Bodini, Lettera a Carmelo Bene sul barocco, cit., p. 176.

[13] Ibid., p. 177.

[14] S. Giorgino, L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene, Lecce, Milella, 2014, p. 50.

[15] V. Bodini, Lettera a Carmelo Bene sul barocco, cit., p. 179.

[16] S. Giorgino, L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene, cit., p. 49.

[17] L’intervento, senza titolo, di Bodini è compreso in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini. Convegno internazionale (Roma, 21-24 aprile 1960), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1962, pp. 52-54. Si veda pure G. Rizzo, La «rupe scoscesa» e l’«amore barocco» di Vittorio Bodini, in Id., Le inquiete novità. Simboli, luoghi e polemiche d’età barocca, Bari, Palomar, 20092, pp. 13-24.

[18] C. Bene, L’orecchio mancante, cit., p. 132.

[19] Conversazione con Carmelo Bene, intervista  a cura di A. Aprà e G. Menon, in «Cinema & Film», estate-autunno 1970; poi in  C. Bene, Si può solo dire nulla. Interviste, cit., p. 169.

[20] Incontro con Carmelo Bene, intervista a cura di R. Bianchi e G. Livio, in «Quartaparete», marzo 1976; poi in C. Bene, Si può solo dire nulla. Interviste, cit., p. 390.

[21] Bene ne parla sia in L’orecchio mancante, cit., p. 132, sia in Vita di Carmelo Bene, pp. 299-300. Cfr. anche S. Giorgino, L’ultimo trovatore, cit., p. 45-46.

[23] Sono espressioni di Bene in Vita di Carmelo Bene, cit., p. 300.

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