Parole, parole, parole 10. Se rinunciamo alla nostra lingua…

Sul piano generale l’eliminazione dell’italiano dall’insegnamento universitario (presentato come un vanto da alcuni atenei) è invece una pratica che provoca danni più che benefici. Escludendo la lingua nazionale, ci si immette sulla via di un futuro monolinguismo straniero della didattica e della ricerca, con gravi rischi per la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura e addirittura come lingua tout court, privata di settori fondamentali come i linguaggi tecnici e settoriali.

Siamo alle solite, scrivevo in apertura, la questione non nasce oggi. Da una decina d’anni varie università hanno avviato corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca tenuti solo in inglese, escludendo l’italiano, la lingua nazionale, dalla formazione superiore. I fautori dell’insegnamento monolingue in inglese motivano così le ragioni della scelta. 1. Nell’attuale contesto storico la lingua dell’internazionalità è l’inglese. A questo dato è necessario adeguarsi. 2. Una migliore padronanza della lingua inglese (derivante dall’insegnamento ricevuto) aiuta l’ingresso nel mondo del lavoro da parte dei nostri laureati, che potranno trovare all’estero nuove occasioni di lavoro. 3. L’insegnamento impartito in inglese favorisce l’ingresso nell’università italiana degli studenti stranieri, poco attratti dalla lingua e dalla cultura italiane.

Intendiamoci. Nessuno mette in dubbio l’utilità di una buona conoscenza delle lingue straniere, soprattutto dell’inglese, lingua oggi necessaria per muoversi agevolmente nel mondo. Ma la conoscenza dell’inglese non va favorita con soluzioni autolesionistiche, che escludono l’italiano dai corsi universitari. Bisogna pensare a percorsi variati, che offrano agli studenti la possibilità di scegliere, caso per caso, la lingua (italiano o inglese) nella quale ascoltare le lezioni e sostenere l’esame. Bilinguismo liberamente scelto, non monolinguismo (inglese) aprioristicamente imposto. E inoltre. Quale lezione farà, in un inglese a volte maldestro, il docente italiano che ha imparato l’inglese come lingua seconda? E ancora. Lo studente straniero che viene a studiare in Italia (magari Dante o Michelangelo o Verdi, che non sono proprio da buttar via) non dovrebbe interessarsi anche alla lingua e alla cultura del paese che lo accoglie?

Una esplicita sentenza della Corte costituzionale, pur ammettendo e anzi promuovendo la didattica in inglese, richiede espressamente che la lingua italiana non venga estromessa dai corsi universitari. Il monolinguismo inglese arriverebbe a violare vari articoli della nostra Carta: a) l’art. 3, poiché permette una «ingiustificata abolizione integrale della lingua italiana», senza tenere conto del fatto che è fondamentale una trasmissione del sapere attinente alla tradizione e ai valori della cultura italiana, della quale il linguaggio è espressione; b) l’art. 6, poiché si pone in contrasto con il principio dell’ufficialità della lingua italiana; c) l’art. 33, poiché compromette la libera espressione della comunicazione con gli studenti.

Non sono cavilli giuridici, si tratta di sostanza. È vero che l’inglese è oggi la lingua del sapere scientifico avanzato e che quindi chi accede agli studi superiori dovrà impararlo bene. Ma espellere la lingua nazionale dall’insegnamento universitario è un danno per la collettività, privata della possibilità di partecipare alla diffusione del sapere. Escludere l’italiano dalla didattica universitaria significa tagliar fuori la nostra lingua dalle scoperte, dai pensieri, dai progetti del mondo nuovo.

I fautori dell’insegnamento monolingue in inglese presentano la loro scelta come moderna e avanzata. Non è così, mistificano le cose (forse senza rendersene conto). Non è nostalgico del passato ma è lungimirante chi difende l’uso della lingua nazionale senza elevare barriere contro quella straniera. Per l’Italia il futuro, da praticare con provvedimenti accorti, risiede nel plurilinguismo consapevole (italiano e inglese, e magari altre lingue straniere), aperto verso il mondo senza sacrificare la nostra identità.                                                                   

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 marzo 2024]

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