Una lanterna aggiunta. Romanzo 7

   Frate Alfonso sorrise. «In tanti abbandonano la fede alle prime delusioni d’amore. Molti però tornano per farsi sposare in chiesa.»

   «È bello avere avuto a catechismo negli anni precedenti sia lo sposo che la sposa, vero?»

   «Può succedere. È una emozione particolare scoprire che un ragazzo ed una ragazza, che tu conoscevi nelle loro distinte personalità, si sono innamorati.»

   «Soprattutto quando l’anima non è ancor del tutto svelata.» Soti cominciò a raccontare: «Un giorno incontro per strada uno studente diplomato l’anno prima. Mi dice che verrà a scuola con una sorpresa. Penso a cose che si regalano ai professori, una penna, una stampa. Bene, un giorno mi giunge in sala docenti insieme con una studentessa che ancora avevo in quinta. Non può essere. Invece è. È la sua fidanzata da un paio di settimane. Fulgente di giovinezza e d’umiltà vestuta. Pensai a quanto in quei giorni uno fosse mistero per l’altra. Avvertivo che stupivano del mio stupore. Capivo che avrebbero desiderato ascoltare qualche fatto importante che mi era rimasto in impressione nell’uno e nell’altra. Trattamela bene, dissi al fortunato ragazzo come se gli stessi consegnando una figlia.»

   «Non eri innamorato della giovane?» chiese l’Aloisio.

   «Innamorato no. O forse mi innamorai in quel momento.»

   «Una bella storia che tu hai colta nel suo giorno di eccezione quando al peso della tua vita arrivano a soccorrere altre spalle.»

   L’uomo stava confessando un carico pesantissimo di solitudine? Soti pensò al mistero per lui di Gaia sospeso su quelle belle foto che il frate intendeva modificare.

   Fu un sollievo che in saletta comparisse Marzio.

   «Non mi volevate tra i piedi?»

   «Ti vogliamo, eccome!» assicurò Soti con un respiro più tranquillo. «Dicevamo degli abbandoni nei figli della fede dei padri.»

   «E di come rimetterli nella fede, immagino» sentenziò Dom Marzio «Il danno non è abbandonare la teologia ma portarsi in seguito con passi falsi nella metafisica.»

  «Oh i passi nella metafisica!» esclamò Soti Pasina che quindi parlò improvvisamente ispirato. «Dipendenza o potere? Questo è il problema. Trovarsi nella solitudine, scoprirsi nel bisogno oppure avvertirsi sicuri di sé ed operativi? Dover chiedere aiuto non sapendo se si sarà ascoltati o lusingarsi di ridurre gli altri a nostro comando? Eccoci al Sé e all’Altro, al Soggetto e all’Oggetto. Il Soggetto nella precarietà e nel dolore può chiedere un aiuto, ma non può pretenderlo. L’aiuto, ancor meglio se amore, che il Soggetto riceve è sempre volontario e imprevedibile. Verrebbe da dire oltre natura, trascendente, oltre la fisicità. All’incontrario, il dare ordini, il comandare è solo urto tra oggetti in un mondo fisico vuoto di senso. Qui sta il salto. Il grido di aiuto è linguaggio universale, umanità che pensa sé stessa. Il filosofo chiama Spirito Assoluto e il teologo chiama Dio questo elevarsi del pensiero nell’Autocoscienza o anche dialettica dell’identico e del molteplice, della Parola e dell’Atto, dell’Essere e dell’Ente.»

   Il Dom batté le mani. «Così parlò il nostro amico dopo il viaggio al Kumbh Mela sulle rive dei sacri fiumi. Tanti teologi e filosofi si sono scottati le dita e rovinati la carriera a ragionare di Soggetto e Oggetto. Poveretti. Parevano contenti di portarsi in paradiso lo strumento del linguaggio, il loro parlare per concetti astratti. Ma, se si scoprisse che in paradiso non si parla, che paradiso è?»

  E il frate, incoraggiato da tale scherzoso ragionare: «Non so se sono rimasto impigliato per sempre nella prima certezza di portarmi il linguaggio in paradiso. Capisco il rischio di sterili contraddizioni del concetto a trascurare una logica ordinata su fatti sperimentali. Ma io credo che la nostra intelligenza debba essere sorretta, per essere positivamente operativa, da un forte sentimento comunitario di speranza ed empatia.»

   Due soci del circolo si presentarono a salutare e Soti approfittò per abbandonare tutti e uscire sul balcone per concedersi un altro giro di ricordi.

17

Attraversando in pullman l’alto ponte sulla strada per Allahabad i turisti abbracciarono con lo sguardo la zona di confluenza del Gange con lo Yamuna e quindi l’immenso spazio occupato dalla coloratissima tendopoli. Dopo l’eccitazione per l’incredibile spettacolo, smarriti, ascoltarono avvisi e raccomandazioni della guida fino a che, con un giro di inversione e un secondo passaggio per accontentare i fotografi dell’altro lato del veicolo, non si arrivò ad uno dei parcheggi nella periferia sud del Kumbh Mela, in una zona aperta di campagna. Cominciò la marcia su uno sterrato ancora umido tra la confusione di mezzi e di folla. Si annunciava una giornata di sole e di aria pulita dopo la tempesta notturna che aveva abbattuto la polvere. Giunti in vista del Gange, in un tratto dove ormai le sue acque hanno accolto quelle dell’altro fiume sacro, da un’altra prospettiva sia pure più lontana si offrì di nuovo lo sconfinato assembramento della festa religiosa. La strada avvallava piegando a destra per seguire gli sbalzi di sponda mentre una lunga fascia erbosa la separava dalla riva dove si vedevano ormeggiate coloratissime barche. Qualche chilometro più avanti tra malandati veicoli e vecchi trattori con rimorchi cominciava il posizionamento di piccole tende verdi e arancione. Dalla parte del fiume si aprivano sempre più ampi spazi dove erano montati capannoni con luci al neon e scenografie da circo con manifesti da campagna elettorale e dai caratteri giganteschi. All’hindi si accompagnava ma non sempre l’inglese.

   Il gruppo in fila dei nostri aveva cominciato ad allungarsi con comprensibile apprensione della guida che era in testa e dell’accompagnatore italiano a chiudere. Tra i fotografi sbrigativi e i cacciatori ossessi di immagini si inseriva altra gente a creare il contrasto tra lo scialbo vestire d’occidente e gli infuocati colori indiani di dhoti, tuniche, turbanti, mantelli, sari e sciarpe.

   Si intensificava il passaggio di veicoli d’ogni genere: camioncini, auto, mototaxi, motociclette. Sul percorso e, come si vide poi, nell’immenso reticolo in terra battuta del campo erano posate due file di lamiere forate contro il sollevamento di polvere, il che almeno per alcune ore e per merito dell’acquazzone notturno si evitò di respirarla. Sul pomeriggio per l’opera implacabile del sole sarà tutto pulviscolo e foschia.

   Si giunse a un incrocio dominato da una collinetta boscosa e in parte ombreggiato da un gigantesco ficus. Su alti pali svettavano bandiere ed erano appuntati striscioni oltre a una grande mappa del campo con i suoi settori distinti per colore. Un punto strategico facilmente individuabile se qualcuno si fosse perso. A sinistra si indicavano i ponti galleggianti sul Gange per raggiungere la zona centrale, vale a dire l’ombelico del mondo, l’angolo di confluenza delle acque sacre per il bagno di purificazione. Si seguì quella direzione. La strada era affiancata da ogni genere di accampamenti. Un’idea della sua larghezza e lunghezza, come anche delle piste che l’attraversavano, era offerta dalla prospettiva dei pali e dal groviglio dei fili elettrici. Si susseguivano i padiglioni adibiti a luoghi di preghiera. Le voci degli oranti ampliate dai diffusori sollevavano un clamore di mille luna park.

   Consigliabile per la sicurezza sistemare lo zaino sul petto. Si capì presto comunque che non c’era spazio non sorvegliato da polizia e soldati. Solo la meta verso i pontoni garantiva in realtà la non dispersione dei compagni tesi a fissare immagini. I più si trovarono isolati in mezzo alla massa di pellegrini che procedevano stretti in gruppo o incolonnati come confraternite in processione. C’era gente con fagotti di coperte sulle spalle. Nuclei familiari si tenevano a una corda per non disperdersi. Donne in fila si afferravano l’una a un lembo di sari dell’altra.  

   In Soti sorgeva un senso di preoccupazione e paura. Si sentiva responsabile della figlia e della sua amica le quali però pur giurando di non distaccarsi da lui tendevano a fermarsi incantate. Casualmente si trovava a fianco persone del suo gruppo ed era urbanità ascoltare le impressioni. Nel contempo voleva non perdere di vista Gaia con la quale ovviamente non aveva stretto alcun patto di sorveglianza. Si stava abituando ad una esperienza parallela, a scegliere inquadrature in cui lei fosse compresa. Ne osservava l’espressione, tale di spettatrice sorpresa dall’incredibile spettacolo di folla, di colori, di suoni. A volte, dopo che avevano ripreso la stessa scena, gli riusciva di fissarla nell’obiettivo quando lei si voltava a sorridergli conscia di essere il vero centro dell’attenzione e l’inaspettato senso del viaggio. Perché non restasse un gioco muto anche in quel caos Soti doveva trovare le parole che rivelassero nascosti processi mentali di suggestione.

    «Se la mistica nel significato comune è vena di follia, beh qui la follia si può confezionare a pacchetti. – È comprensibile il desiderio del ritorno nel luogo in cui si è accesa la prima scintilla che ha dato origine alla vita. – Non la immaginavo una simile spettacolare narrazione mitologica.»

   Gaia rimane pensosa poi dice: «E neanche hai pensato che il sole potesse bruciarti il collo. Attento. Stanotte rischi di non dormire.»

   Leva dallo zaino un foulard e glielo sistema con competenza. L’operazione non sfugge agli sguardi di alcuni pellegrini asceti che si bloccano curiosi. Una donna accovacciata a terra col suo sari impolverato smette di lavare piccole stoviglie per osservare la straniera che si cura del compagno. Bimbi interrompono il gioco fatto di pentolini e pietruzze.

   In giro non c’è sporco. Sono previste prese di acqua per il lavaggio di stoviglie. Per una volta le vacche sacre non fanno le spazzine. C’è un bell’ordine sui carretti a quattro ruote di bicicletta carichi di frutta, come anche sulle basse panchette con spezie e verdure.

   Soti fotografa l’incontro di Gaia con una bambina di circa dieci anni seduta su un basso sgabello. L’una è visione eccezionale per l’altra. La signora è tutta in bianco, cappellino, camicia, pantaloni, salvo la fotocamera con le sue cinghie nere e le altre più larghe dello zaino. L’espressione della piccola si raccoglie sul viso minuto dipinto di bianco con forte sottolineatura colorata di occhi e bocca. Un visetto come una pagina di poesia. Il sari è a fiori di prato. Tra vari ornamenti sia sul collo che sulla montagnola di capelli girano file e file di semi dell’albero magico. Non può essere che un intrecciarsi di sguardi. È solo questo. Trovarsi.

   I sadhu circolano in piccoli gruppi o isolati. Scuri di pelle, lunghe barbe e lunghissimi capelli tenuti da fasce o da arditi turbanti dal colore ocra come quello della tunica o dei mantelli arrotolati sulle spalle. La fronte è dipinta con i segni della divinità. Indossano ghirlande di fiori o collane. Spesso sono scalzi e qualcuno chiede offerte. Altri stanno al riparo di vecchie lamiere, fumano erba, attendono a un piccolo fuoco con qualche stecco e una bracciata di paglia.

   La curiosità porta a spingersi in certi percorsi laterali stretti e ombreggiati dalle sporgenze dei teloni di copertura degli alloggiamenti. Presso uno di questi un tipo con cascata selvaggia di capelli e barba, brandelli di tunica sul dorso, sta in piedi appoggiato con le braccia ad una tavoletta appesa con corde a dei pali fissati a capanna. Estatico. Al di sotto della tavoletta il pube villoso è completamente scoperto. Claudia invece di procedere oltre facendo finta di niente si è fermata per dare con la sua reflex il tocco dell’immortalità alla figura.

   «Fai scatti multipli e con lo zoom, Claudia.» Soti le ride alle spalle.

   «È una precauzione» fa lei. «Se in questi paraggi è caduto il seme della vita al ritorno in Italia mi ritrovo incinta senza sapere per opera di chi.»

   Schiere di poveri allineati a ridosso di lamiere di recinzione o all’ombra di teli issati con canne mangiano nella loro ciotola il riso avuto in offerta. Qualcuno gira chiedendo elemosine e non ricevendole minaccia maledizioni. In baracconi da disneyland maestri di dottrina tra un mantra e l’altro predicano ai fedeli. Lo straniero non sa se vi si svolgono confronti fra fedi del passato e rielaborazioni teologiche nel presente, se si affermano i diritti della collettività o dell’individuo, se emergono rivendicazioni nazionalistiche. Si sa però che i titolari di alcuni ashram sono anche ricchi. Possiedono la tecnica della persuasione. In apparenza sono eliminate le distinzioni di casta. Doveva esserci però una bella differenza tra chi era giunto alla festa in aereo, in auto di lusso, in pullman gran turismo e chi con mezzi di fortuna. Molti erano partiti mesi prima a piedi chiedendo l’elemosina per strada e dormendo dove capitava. È un esercizio della volontà, un dominio su sé stessi. Si poteva pensare a questo tipo di pellegrini come a creature mentalmente smarrite per la solitudine e la miseria. In realtà era gente determinata, insieme mite, comunicativa.

   Un tempo squadre di schiavi possono essere fuggiti verso luoghi remoti e nelle foreste imparando a sopravvivere con quello che la natura dava di frutti, di erbe, di fuoco, di riparo. Hanno scoperto la mirabile potenza del pensiero libero dalla sofferenza della fatica e dalle fissazioni derivate dalla paura. Alcuni avranno coltivato l’arte della scrittura e qualcuno avrà pensato di presentarsi come mediatore tra gli uomini e gli dei, di innalzare templi di legno e di pietra.

   Dopo la lenta e lunga camminata ecco le due larghe passerelle su grosse boe. I nostri si raccolgono a capo di quella d’andata. Si è già alla divina confluenza dei due fiumi. Da qui è pressoché completo lo spettacolo delle rive con i bagnanti in acqua e i numerosissimi che si apprestano a farlo o sostano ad asciugare e a cambiarsi. Su imbarcazioni stracolme gente muove a poca distanza dai paletti e dalle traverse che delimitano la zona di sicurezza per chi non sapesse nuotare. Transennata è anche la pista per la corsa al bagno degli asceti, dei naga baba. Ai lati di questa, all’alba di domani la folla assisterà allo spettacolo. Adesso tutto lo spazio è semivuoto e segnato da file di lampioni. Vi passa un corteo di fedeli precedendo un carro infiorato in onore di Shiva e trainato da buoi con le corna dipinte. Il guru assiso in trono e dallo sguardo vuoto issa tridente, lancia e spada.

   In prossimità delle rive il terreno è ricoperto di paglia fino al punto in cui cominciano le spianate di sacchetti di sabbia degradanti sulla corrente ad impedire scivolamenti. Qui muove una folla tra pali, bandiere, paglia, piramidi di girandole al vento, bocce di plastica colme di acqua santa da portare a casa, clamori di altoparlanti. Donne e ragazze tengono per i lembi i lunghi sari dispiegati ad asciugare al sole e al vento, quasi coloratissime quinte di teatro.

   China sulla corrente, attenta a non scivolare, Gaia posa sull’acqua una barchetta di carta con fiori, quindi fotografa un bimbo nudo, irritatissimo per la costrizione al bagno imposta dalla madre e infine curioso della barchetta che dondolando va a unirsi con altre più lontane.

   La prima visita al Kumbh Mela si esaurisce in uno spazio denso di luce che acceca, di suono che stordisce.

18

Era prevista una immensa folla di spettatori alla corsa dei naga baba per il bagno nelle acque sacre allo spuntar del sole. Per trovarsi sul posto in tempo utile stavolta il gruppo lasciò il campo tendato in piena notte. Già ogni sorta di veicoli in colonna limitava lo scorrimento, né col chiasso dei clacson qualcuno poteva sperare di assopirsi. La guida insisteva con le raccomandazioni di non perdersi una volta cominciato il cammino a piedi, né lesinava rassicuranti risposte agli ansiosi. Gaia seduta accanto a Soti provò a reclinare la testa sulla sua spalla nel tentativo di dormire.

  Scesi dal pullman si portarono sulla strada già percorsa il giorno prima lungo la riva sinistra del Gange. Usarono le torce fino ai primi lampioni. All’imbocco della pista che conduceva ai ponti galleggianti già era calca con soste per far passare i veicoli permessi, i carri con altari e addobbi sacri, i camion del servizio d’ordine con militari e poliziotti. La guida suggerì di disporsi rigidamente in fila a costo di fermarsi. Meglio se ognuno si teneva fortemente allo zaino di chi gli stava davanti. Bisognava arrivare tutti insieme alle transenne limitanti il tracciato per la corsa degli asceti. Soltanto inchiodati a quelle si poteva fotografare e filmare senza ostacoli altrimenti si sarebbe rimpianto il letto abbandonato.

   Soti ebbe davanti Gaia e alle spalle aggrappata al suo zaino Sofia alla quale a sua volta si teneva Claudia. A maggior coesione si aggiungevano le spiritosaggini di incoraggiamento che passavano di bocca in bocca dai primi agli ultimi nella fila.

   La sveglia con i mantra data dai mille altoparlanti non era poi più irritante dalla sveglia di casa con le notizie da internet. – Alla doccia o in fiume ci vai nudo. – Quando si dice che chi ha sonno non lo svegli neanche con le cannonate.

   Dal modo di afferrarsi di Sofia al suo zaino Soti intuiva sconcerto, smarrimento, richiesta di protezione. Gli tornava nella mente la notizia della strage alla stazione a causa del crollo di una passerella sui binari e del conseguente panico collettivo. Lui passava da moti di insofferenza alla consapevolezza di dover dominarsi per proteggere tre donne in crisi di nervi. Montava la paura con l’infittirsi della gente intorno e col premere senza riguardo dei corpi sui corpi.

   Stettero dei buoni minuti fermi prima di imboccare uno dei due ponti galleggianti aperto al loro senso di marcia. L’altro era abbastanza sgombro ma nessuna autorità si sarebbe azzardata a chiuderlo dall’altra riva per incanalare la folla su una doppia corsia. I soldati cercavano di frazionare il flusso in modo da creare spazi vuoti di sicurezza. L’attesa sciolse la catena di mani legate agli zaini. Capirono che loro sarebbero passati stretti a fascio. Soti notava i visi in panico delle sue donne che la sfacciata illuminazione del campo rendeva ancor più pallidi. Partì con le battute per calmare l’ansia. «Rammentate il passaggio della Beresina dell’esercito di Napoleone in Russia? E i ponti sul Tagliamento nella ritirata di Caporetto?»

   Gelo. Tensione.

   Claudia o infastidita da qualcuno o per dominare la tensione ascoltandosi esclama: «Mai fu atmosfera sacra senza grande pigia pigia. Se il primigenio seme della vita è caduto proprio qui non c’era altro posto per ricordare la prima volta che hai fatto l’amore. Qui lo si ricorda tutti assieme.»

   Gelo a commento.

   Dal premere dei corpi furono spinti pian piano sul pontone. E qui tutti fermi. Una massa aveva fatto tappo allo sbocco sull’altra riva. Salivano al cielo voci e grida di protesta mescolate con i mantra sparati dagli altoparlanti. Non si spingeva più perché tutti erano consapevoli che sarebbero finiti schiacciati. Si restava incollati gli uni agli altri. Preoccupazione e irritazione crescevano. Soti avvertì al suo fianco le scosse di brivido di sua figlia, muta, fuor di sé. Quando furono di nuovo fermi propose: «Accostiamoci al parapetto a valle della corrente del Gange, almeno ci si butta per primi e si nuota al largo.» In mezzo alla palpabile apprensione qualcuno dei compagni riuscì a ridere, tuttavia approvò e consigliò la manovra.

   Approfittando di un lento avanzamento e con la scusa di chiamarsi l’un l’altro giunsero alle assi di protezione. Soti e Gaia si trovarono di fronte. Gli zaini schiacciavano alle loro spalle. Rimandarono l’uno all’altra l’antico respiro, l’antico fremito. Non più l’infrarosso a misurare le distanze. Non le parole, ma i corpi confessavano nel nuovo contatto, nel nuovo abbraccio di essere scintilla aggiunta alla sterminata galassia mitologica. Lo affermavano gli occhi costretti a chiudersi, le labbra pronte a un bacio, la confluenza di nascoste correnti, non diversa da quella silenziosa dei due grandi fiumi. Essi sono sul lembo di terra sulle cui sponde si è affacciata la civiltà dei secoli e si sono tessute le storie. Fanno parte di un evento che per loro non si ripeterà più.

   Liberi oltre il ponte, percorsero precipitosamente un buon tratto del campo per conquistare le barriere delimitanti la grande pista. I fotografi professionisti vi bivaccavano dalla sera prima. Soti tenne sempre per mano o sottobraccio Gaia nel difendere la posizione raggiunta.

   Sofia si tenne abbattuta pesantemente sulla transenna di contenimento. Furiosa di una attesa snervante. Fosse stata una divinità del cielo avrebbe rovesciato altri temporali sul grande campo o veleno o disgrazie. In crisi di stanchezza e sonno, tanto più si sentiva assediata da una folla strabocchevole e assordante, tanto più in lei probabilmente montava un senso di insignificanza e di morte. Claudia teneva pronta la macchina fotografica continuando a chiacchierare con uno o con un altro dei compagni di viaggio e con loro partecipava al gioco dei lampeggi. Indotta da gelosa meraviglia, muta, osservava Soti e Gaia nella realtà nuova, nel loro tenersi ancora stretti, nella espressione persa dei loro volti.

   Allo schiarire di uomini e cose nella prima luce dell’alba un’onda si annunciò con un clamore assordante sullo sfondo della larga pista. Nell’impazzire dei flash e nello stupore delle immense ali di folla irruppero corpi nudi coperti di cenere, selvagge capigliature contenute da bende, visi scuri dipinti con i segni del divino, barbe lunghe e incolte, petti irsuti e addomi di tutte le prominenze con i sottostanti organi in festoso dondolio. E cento e altri cento naga baba e mille e mille. Dovevano scaldarsi con la corsa prima di tuffarsi nelle acque gelide. Il loro sguardo era sempre rivolto avanti, alla meta e di rado qualcuno gettava gli occhi sul muro di folla. La parata di corpi per nulla belli e atletici indicava che sotto la mimesi colorata dell’epidermide pochissimi erano i molto giovani. Avvisaglie del tramonto di un rito millenario?

   Che un patto associativo non possa che definirsi religioso, cioè stretto con vincoli a livello soltanto emotivo? Lo spettacolo era anche una affermazione non secondaria della identità indù contro prevaricazioni e abusi di altre religioni non autoctone le quali in modo sempre più aggressivo pretendono una legislazione statale favorevole al loro modo di pensare la vita associata. E tuttavia all’occhio dello straniero era ravvisabile anche l’innestarsi di un nuovo potere astuto, di un capitalismo organizzatore di un grande trucco mediatico per l’homo videns. Un rischio di deriva che potrebbe segnare la fine delle grandi narrazioni.

   Terminato lo spettacolo della corsa il gruppo di Soti ci mise alquanto per ricompattarsi. Intanto la guida colse la direzione giusta di sfollamento puntando verso la fortezza che a occidente sulla riva sinistra dello Yamuna delimitava l’immensa tendopoli. Nella potente costruzione cinquecentesca dell’imperatore moghul Akbar entravano in quei giorni solo i fedeli a venerare il grande banyan, l’albero sacro le cui chiome si protendono sui bastioni. Si dice che se una persona si butta dagli alti rami dell’albero sacro riceve l’immortalità.

   Caso o volontà di un dio distruttore, Sofia, camminando con lo sguardo rivolto verso le possenti mura del forte fu bloccata di scatto da un braccio di Gaia teso sul suo petto. Stava per inciampare su un essere con monconi di gambe e braccia che strisciava per terra chiedendo l’elemosina. Qualcuno depositò delle monete in una ciotola di latta legata a quel che restava dell’avambraccio. Sofia dopo aver mosso lo sguardo da quell’essere scuro e coperto di polvere su verso i compagni e da quelli in uno spazio indistinto tra cielo e terra, scoppiò a piangere. Gaia e Claudia prontamente la cinsero intorno riuscendo a farla camminare fino alla riva del fiume. Lì era pronto un uomo con una barca che aiutò il gruppo a salirvi, curioso che le tre donne giunte allacciate si ricomponessero nello stesso modo una volta sedute sulla traversa di prua.

   Si navigava sul filo magico dell’incontro delle correnti sacre quasi sfiorando i naga baba ancora immersi. La barca, a remi come tutte le altre, stentava ad avanzare a volte toccando il fondo sabbioso, sì che doveva essere liberata con le pertiche. Comunque la navigazione sul fiume era l’unico modo per rendersi conto del termitaio umano assiepato sulle rive. Sopra la linea delle teste era un unico sventolio di bandiere.

   Approdati, si misero sulla via che riportava al parcheggio. Il sole dardeggiava attraverso il pulviscolo levato da uomini e mezzi. Tutto era secco e del temporale purificatore nessuna traccia. Un vecchio avanzava su un carretto trainato da un asino. Turbante, barba lunga, petto nudo e il dothi intorno ai fianchi. Superandole aveva visto le tre straniere camminare tenendosi per mano, come se le due esterne soccorressero quella al centro. Fece loro segno se volevano un passaggio. A carretto fermo montarono su insieme a Soti che accettò l’invito di aggiungersi. Le donne si adagiarono alla meglio sul pianale e Sofia parve addormentarsi sulla spalla dell’amica. Soti tenne le gambe penzoloni sul limite posteriore.

   Invidiati dai compagni che andavano superando, raccolsero una voce da uno di loro visibilmente sfinito dalla marcia.

   «Ecco quelli che dall’Holy Triveni Sangam vanno a popolare terre lontane.»

19

Soti e Marzio rividero l’Aloisio al circolo Atena dopo che era mancato per diversi giorni. Ufficialmente per i molti impegni in parrocchia.

   Durante la sua assenza avevano ipotizzato un ripensamento, una improvvisa perdita di interesse, forse anche un cedimento alla malinconia. Dopo le fantasmagoriche visioni del raduno costui si era lasciato sfuggire un triste pensiero, quasi una profezia. Eventi religiosi di tale grandezza non se ne sarebbero visti più in futuro: Ben altre sparse tendopoli avrebbero occupato la scena del mondo. Parole forse dettate dal desiderio di abbandonare il convento e conoscere il mondo non più per la voce degli altri e tanto meno per fotografie. Avrebbe visto e raccontato lui stesso sia i riti come spettacolo, sia gli assembramenti di fuggitivi e di senzaterra.

   Ma tornato alfine al circolo per una delle sedute conclusive il frate stette imperturbabile come al solito a ipotizzare ritocchi. Al centro delle foto nelle tappe successive della visita al Kumbh Mela restava la figura di Gaia. Lei compariva in albergo in vesti indiane dai ricchi e coloratissimi ricami, tesa ad attirare gli sguardi su di sé. Estatica a Bodhgaya nel tempio Mahabodhi davanti al banyan dell’illuminazione del Budda e in continuo moto e paziente studio a riprendere nel magico giardino le figure degli oranti sotto i grandi alberi e presso le piante fiorite.  Sempre impegnata nel solito gioco di attese, pronta a rispondere a Soti con scatto su scatto. A Varanasi era chiaro il loro lungo duello su risciò diversi, affiancati o in operazione di sorpasso. Su quei miseri tricicli mancavano buoni sostegni da tenersi, che anzi bisognava proteggersi dai mototaxi impazziti che sfioravano il gomito. I piedi stavano in appoggio precario per non intralciare le pedalate del conducente, affannosamente impegnato nell’ingorgo di traffico a non distanziarsi dal gruppo in carovana. Nella foschia polverosa compariva la città caotica con la sua variopinta umanità vagante. Qui gli assedi ai banchetti dei venditori, là una fila di donne strette pigiate lungo transenne per accedere a un tempio. Ma questo era sfondo del tutto secondario rispetto al soggetto principale, alla donna concentrata con la macchina fotografica.

   Si vedeva a sera sulla riva del Gange un palco con una fantasiosa luminaria. Diviso in cinque sezioni, ognuna con un altare ornato di fiori. Giovani in sincronia con mani esperte roteavano cerchi su cui erano fissate delle fiaccole. Sul fiume barche cariche di gente erano assiepate per lo spettacolo.

  L’Aloisio si portava insistentemente una mano sulla fronte, immalinconito forse dalla complessità di sentimenti consegnati a quelle così diverse memorie.

   «Se scompare Varanasi con i suoi vecchi riti sul mistero della vita e della morte scompare il mondo» commentò il frate «o almeno tutta la memoria del vecchio mondo.»

   «Cosa vorrà significare quella danza di fiamme?» chiese Valletta.

   «Ogni tipo di circonvoluzione è un segno a cui corrisponde una frase» rispose Soti azzardando una sua interpretazione. «Le lingue di fiamma saranno state interpretate dall’uomo antico come alfabeto e vaticinio. Da sempre il fuoco ha rappresentato l’incantesimo maggiore. Esso unisce ma anche separa al compimento di una esistenza. Le ceneri nel fiume e i vapori nel cielo.»

   Venne il giro sulle silenziose barche a remi alle prime luci dell’alba. I nostri apparivano infreddoliti giusto da rallentare i moti della mente che pure molto aveva immaginato prima del viaggio e tanto terrà vivo dopo. Lontane ardevano alcune pire e più vicino sui gatt gente si affaccendava attorno a un manto variopinto che copriva una salma. Un sole pallido emerso dalle tenebre colora la foschia sospesa sull’altra sponda. Gaia è la prima nel rito di abbandonare alla corrente una barchetta di carta con un fiore e un lume. Gli altri seguono ad uno ad uno a chinarsi sull’acqua per consegnare la propria anima all’eternità del fiume. Nella aumentata luminosità del giorno ecco uomini e donne scendere le scalinate per il rito delle abluzioni. Si sbarca in prossimità di grandi depositi di legna e viene raccomandato l’obolo ai serventi delle pire.

   Mai Aloisio e Valletta erano parsi tanto colpiti come a guardare le foto sulla barca con il suo traghettatore. Tra quelle ravvicinate delle tre donne un primissimo piano di Gaia. La testa è coperta da un foulard, lo sguardo sfiora il fotografo per volgersi verso un punto lontano alle sue spalle. Un segno di distanza, di indicazione d’altro verso il basso orizzonte.

   «Dimmi dunque» domandò a quel punto Marzio all’amico «La tua storia con la signora la raccontano solo in parte le tue foto, ma quale è la narrazione diciamo filosofica che tu hai riportato dal tuo viaggio?»

   Soti volse lo sguardo verso la finestra e il mare. «Nella storia umana la figura paterna ha costituito le norme per l’adattamento alla natura. Protezione delle piante e degli animali. Non è un esempio la vacca nutrice e spazzina in India? L’igiene del bagno sacro? E il velarsi delle donne contro agenti patogeni esterni anche sociali? Nascono così le narrazioni sigillate col tabù per chi è lento a capire. Chi trasgredisce ha la certezza della punizione perché allo sguardo del padre, naturale o divinizzato, non ci si può nascondere.»

   «Severe narrazioni paterne. Io però amo le dolcissime che scaturiscono da voci materne» interruppe l’amico Marzio. «Salve, o figlie di Zeus, o Muse che abitate le olimpiche dimore, datemi l’amabile canto e narratemi come per partenogenesi nacque Gaia dall’ampio petto e da lei ebbero origine i Fiumi e il Mare agitato, le Stelle splendenti e l’amplissimo Cielo. Vedete, da Esiodo furono elencati i diversi caratteri di uomini e donne considerati immutabili al pari degli aspetti della natura. Non si può dire che all’instancabile cantore, un po’ fanfarone invero, mancasse il senso della realtà nel raccontare come Gea, la Terra, fosse madre di esseri divini. Anche i sovrani la raccontarono lunga innalzando monumenti alla divinità di sé stessi.»

   «Le grandi narrazioni indicano una morale» aggiunse il frate. «Si scrive e comanda di non umiliare, non uccidere, non rubare, non mentire. Ai divieti si aggiungono gli obblighi. Aiutare con l’azione e con la parola i deboli, i calpestati, i disperati dell’affetto e della malattia. Non chiedetemi quando sia più d’aiuto il fare e quando di più il raccontare. Se molto più spesso balbettiamo di noi stessi, uomini comuni, la narrazione tramandata riporta la vita di personaggi eroici. Perciò non chiedetemi di distinguere tra poemi di rassicurazione che si concludono con la gloria dell’abbraccio celeste e storie documentate dei progressi in libertà e dignità di solerti associazioni umane. In un altro nostro incontro ci siamo chiesti come può succedere, e per quale avventura di relazione con altri uomini, che si resti fedele ad antiche credenze, le si abbandoni in piccola o buona parte, oppure del tutto. Il distacco può essere sereno, ma anche drammatico. E qui la lanterna che illumina il cammino uno se la deve accendere da sé. Speriamo che nelle mie prediche io riesca a svelare il senso delle parole nelle sacre scritture, quasi sempre avvolte in simboli occulti al discernimento del lettore. Per questo io amo più la voce che il libro, il dialogo più che il monologo. I primi uomini che impararono a fissare con segni i loro pensieri avevano scoperto la coscienza, questa nostra interna macchina del tempo, deposito delle esperienze; ma col progredire dell’arte gli specialisti assommando potere nelle loro mani finirono col disseminare nella scrittura ogni sorta di convinzioni assurde e di dannosi errori di traduzione. Il tutto passava per dettato divino, anche il racconto di violenze. Creduloni ad ascoltarli li trovarono sempre. Se proprio volete sapere di me, vi dico che non ho scelto il mio impegno di vita dopo aver vagliato la bontà dei dogmi e dei miti. Le motivazioni affondano nel carattere individuale. Sapevo di caricarmi sulle spalle la tradizione mitologica. Alla prova dei fatti può capitare che io la legga appunto sotto la luce di un’altra lanterna aggiunta. Noi cosiddetti chiamati da Dio cominciamo da giovani con certe idee e finiamo con il gestire situazioni impreviste. Purtroppo non ho un registro di successi come operatore sociale o di progetti rimasti a mezz’aria.»

   «Torniamo al nostro raduno religioso» riprese Soti spostando continuamente lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi interlocutori. «Sono stato testimone delle preghiere al padre celeste e ho ascoltato vecchie favole sacre. Se la gente avesse soltanto bisogno di pregare non servirebbero i raduni oceanici. L’umanità avrebbe una unica religione. Ma la massa si risolve in una forza ideologica, politica. Purtroppo le narrazioni cosiddette rivelate non stanno tutte allo stesso livello di progresso civile. Coinvolgendo grandi masse esprimono visioni del mondo molto spesso in conflitto aperto tra loro, rispecchiano società feudali, deboli democrazie. Non è irrealistico considerare i credenti come veri e propri popoli di fede al di sopra degli stati con una ideologia di stampo nazionalista, con un rischio anche totalitario e paganeggiante. In conclusione sarebbe ragionevole non più pregare un padre divino creatore dello spazio-tempo, ma rivolgersi al fratello con cui costruire libere associazioni. Penso che questo sia il destino della modernità. I contributi rilevanti della tradizione religiosa vanno tradotti in un linguaggio universalmente accessibile. I credenti adotteranno una nuova forma di fede che non umili la ragione e comunque non costringa la persona alla doppiezza della mente. Se vogliono vivere in un mondo nuovo essi sono chiamati a rinunciare non alla loro tradizione e al loro passato nazionale, ma alla autorità vincolante e alla validità universale che quella tradizione e quel passato hanno sempre preteso. Ricordiamo che le narrazioni religiose hanno un elemento in comune. Prima di fornire assicurazioni sulla vita eterna, esse promettono la sicurezza e la dignità di un lavoro, cosa che sembra estranea a un certo liberismo laico che della rivoluzione illuminista ha esaltato solo i diritti individuali dimenticandosi dei doveri. E i luoghi di culto donano pace e silenzio, cosa che non avviene nel conflitto civile.»

   E l’Aloisio con aria di malinconia: «La speranza sia una fede sociale. Resta un fatto però, cari amici. In momenti di angoscia, specie nel delirio di fine vita, pur avendo accanto i fratelli, chiamiamo in soccorso nostro padre, nostra madre. I primi volti che vorremmo ritrovare in paradiso.»

   «Dai, ragazzi, non esageriamo» disse Valletta mettendo così fine all’incontro. «L’universale comprensibile dalla ragione non è che la voce di dolore per i mali e le paure che ci infligge la natura e per i mali e le ingiustizie che ci procuriamo da soli a causa della nostra stessa debole ragione. Ma perdonate. Cosa c’entra adesso questo con un commento alle fotografie?»   

20

«Papà, sai cosa ho pensato?»

   Tornava dalla spiaggia. Festosa per il capolavoro della sua abbronzatura estiva. Un agitarsi per la casa.

   «Ascoltami, papà. Sediamoci qui sul divano e ascoltami. No, aspetta. Apro le finestre. Perché le hai tenute chiuse? C’è vento fresco dal mare.»

     Soti sentì montare un velo di angoscia. La ragazza si era preparata a qualcosa che gli avrebbe messo a prova il respiro. Era ancora in prendisole giallo canarino. Rimandava la doccia tenendosi il sale sulla pelle. Un disordine dei capelli. Segni di un pensiero pressante, di una notizia che implicava una decisione immediata. Le aspettative di padre e figlia raramente si erano accordate.

   «Papà, perché non ristrutturiamo la casetta di campagna? Investiamo così i risparmi. Puliamo il campo dalle erbacce, potiamo gli ulivi, i pini, gli eucalipti. Togliamo l’accumulo di seccume sotto i fichidindia. Sostituiamo le vecchie piante da frutto.»

   Il padre la fissò con apprensione. «Sfrondiamo siepi, piantiamo rosai.»

   «Certo. Compriamo il bosco di querce che il nostro vicino vuol vendere.»

   «Col sottobosco. Un giardino mediterraneo per la meditazione e l’ascolto.»

   «Sì, papà.»

    Rideva fissandolo in attesa.

   «Sì?»

   «Sì.»

   Sofia si accostò al padre abbracciandolo e posandogli la testa sulla spalla.

   Più severo che ironico Soti stava per respingerla ma respirò forte. Volle interpretare l’abbraccio come risveglio di antiche tenerezze.

   «E Claudia ti darà una mano a fondare l’ashram?»

   «Lei non c’entra.»

   «Ah, lei no. Filosofia e teologia non si addicono alla tua amica. Lì potrai restar sola, perché qui nella nostra casa girerebbero troppi fastidiosi giovanotti. Al dolce sciabordio delle onde preferisci il canto delle cicale d’estate e dei tordi d’inverno.»

   «Al centro il trullo, il tuo vecchio osservatorio celeste.»

   Lui cercò di ricomporsi. Al di là dello scherzo Sofia poteva aver ragionato con amici esperti sulla necessità di trasformare il risparmio in qualcosa di solido.

   «Hai già chiaro il progetto complessivo, vedo.»

   «Sul tetto verrà impiantato un pannello solare di ultima generazione.»

   La sua figliola odorosa di mare partiva con l’illustrargli l’inessenziale.

   «Fatti consigliare bene dal muratore se vuoi trasformare il rifugio agreste in un santuario. Da tutto il mondo verranno in pellegrinaggio a santa Sofia.»

   «Verrà un solo uomo, papà.»

   Osservato il pallore muto del padre, lei si levò dal divano per flettersi davanti a lui e posare le mani sulle sue ginocchia.

    «Papà, mi sposo. Alberto è tornato. Mi sposo papà!»

   Soti sentendo sbandare il cuore si concentrò per continuare a vedere la luce del giorno.

   Alberto Campanella era il vecchio compagno di liceo. Il primo della classe e in cima ai pensieri di Sofia, ma timido e non determinato, sì da corteggiare più ragazze insieme. Frequentazioni irrisolte negli anni universitari. Lui ingegneria a Torino. I facili equivoci nelle lontananze.

   Sofia si risollevò per riabbandonarsi stavolta nelle braccia del padre come da bambina. Le scivolò una lacrima. Quando si sciolse fu tutto un racconto. Dalla laurea alla chiamata in una azienda salentina.

   «Io penso ai tuoi anni in attesa delconsumati ad aspettare il tuo grande amore.»

   «Papà, è così.» Sofia si levò in piedi per accostarsi alla porta finestra come per accogliere su di sé tutta la luce.

   «E com’è che vi siete ritrovati? Chi ha mosso il primo passo?»

   «Ero in chiesa ad una conferenza di un teologoamico dell’Aloisioa messa.»

   «Anche poeta, immagino.»

   «Poeta o meno,tutto il paese in Cchiesa. Più laici ad ascoltarlo che devoti. Io volto gli occhi verso una vetrata che si accende di sole e chi vedo tre metri più avanti addossato al muro? Non si era ancora accorto di me, anzi poi mi ha detto che riteneva molto improbabile che io fossi lì. Non aveva il coraggio di chiamarmi al telefono dopo un po’di tempo che non ci sentivamo. Freddezza e la solita supposizione che una ragazza non sta a lungo senza coccole. L’ho raggiunto. Siamo usciti subito fuori. Le persone ci hanno osservato senza occhiate di rimprovero.»

   Soti Pasina sentiva le gambe e le braccia scivolargli via.

    «Il giorno della più bella preghiera.»

   «Papà, non prendermi in giro adesso.»

   «A Padre Alfonso allora l’onore di sposarti e poi di consigliarti sulla santa vita matrimoniale.non ti vedrà più alla messa della domenica.»

   «Nozze laiche. Penso di no. Tre uomini a cui badare sono troppi. Papà, capivo i tuoi sospetti che il frate fosse innamorato di me.»

   «Il cielo mi fulmini. Non poteva che essere innamorato di te, e di Claudia e di Gaia in fotografia insieme

   «Poteva essere.»

   «Quando vedrò lo sposo?»

   «Questa sera, papà. Sarà qui a cena.»

   «Lui solo?»

   «Chi volevi in questa occasione?»

   «Cosicché immagino che abiterete in campagna tanto per cominciare. Mi assumete come giardiniere?»

   «Certo, papà. Assunto. Ma questa era una notizia. Ce n’è un’altra.»

   «Brutta.»

   Sofia rise. «Ho ripensato alla tua commedia. Ho raccontato l’intreccio prima ad Alberto e poi al nostro regista che non si spiegava il tuo lungo silenzio dopo i tanti annunci. Tra qualche giorno se ci passi il testo cominciamo con le prove. Abbiamo però un attore veramente bravo a impersonare il padre sciagurato.»

   L’intero intreccio di Ritorno in accademia dopo il lungo abbandono era impallidito nella mente dell’autore.

   «Pensavo davvero di mettermi in scena, in realtà sono convinto di non essere in grado di reggere ruoli primari.»

   «Credi a me, papà, non sei un attore. Eri un supporto di necessità nelle farse. Le tue battute non erano neanche fedeli. Gli altri rimediavano.»

   «Tutto rotola. Tutto scorre, ma scusa, Sofia, oggi è mercoledì e quando c’è stata la conferenza domenica? Non ne sapevo niente. Sarei venuto anch’io.»

   «Due settimane faNo, domenica l’altra, tu dovevi essere impegnato in un convegno di bibliotecari. Io ho aspettato a dirtelo per avere la certezza che mi sposavo, che la mia non fosse una illusione. Sposarmi e poter metter casa qui. Non credo ai miei occhi. Restare con te, recitare a teatro con Claudia.»

   «E il lavoro, quello per il quale hai studiato?»

   «Si vedrà. Intanto vado come cameriera ai bar o alla reception negli hotel. C’è bisogno di gente che sa le lingue. Un’ultima cosa, papà.»

   «Dimmi, ma non ti seguo se prima non vado a bere un buon bicchiere di vino.»

   «Aspetta, divideremo una bottiglia. Nel testo lasciami pure il nome di Sofia. Ma il Toti facciamolo chiamare Toticchio dalla consorte che gli hai destinato. Perdutamente dolce. Ti pare?»

   «Dolcissimo. Dimmi intanto. In chiesa celebrerà padre Alfonso?»

   «Papà, lascia perdere ormai col frate. Nozze laiche. Offenderei Alberto.»

   «Bene, figlia gentile. E lLo sposo che distoglie le ragazze dalla teologiamessa, cosa pensa di questo tuo nuovo interessedalla vecchia fede

   «Interesse, punto. Anche per lui la religione è una questione di riconoscimento identitario più che di credenze. Peraltro è difficile nella fede separare i valori etici dal complesso campo storico della loro elaborazione.»

   «Quindi anche per il tuo sposo essere credenti è solo un modo di dire, di trovarsi insieme più o meno lontano dalla preistoria, più o meno secondo tradizioni antiche e accettate?»

   «Più o meno razionale e fantasioso, papà.» Sofia scrollò la testa sorridendo.

   Soti fissò quel volto sereno, ma era come se lo oltrepassasse per perdersi verso l’infinito. «In fondo l’ho sempre pensato» disse. «Ognuno in età della ragione si piace di quando in quando di passare per interprete del sacro.» E contando sul felice stato d’animo della figlia provò ancora con ironia: «E quale sarebbe per il tuo uomo di scienza la massima espressione di razionalità?»

   «Mi fai le domande alla maniera di quando andavo al liceo scuola? Nell’uomo di scienza la razionalità è soggetta al controllo di una razionalità universale, la capacità negli uomini di stringere buoni patti e di mantenerli. Contento, papà? Ma la mia è una deduzione, perciò è bene che tu stasera ti metta a discorrere con lui.»

   In due mesi fu preparato lo spettacolo. Soti si sorprendeva favorevolmente alle prove della compagnia e in particolare di Sofia e di Claudia venute a trovarsi sorelle nella commedia. La fiducia, l’entusiasmo facilitavano tutto. Nelle otto settimane dal Ferragosto a metà ottobre Sofia sempre a teatro o di sera a studiare con il padre le battute. La sera della prima rappresentazione furono occupati tutti i posti del teatro. Merito anche del Dom che nell’articolo di annuncio sul quotidiano locale lasciava intendere che Ritorno in accademia avrebbe rinnovato le glorie della compagnia Idrusa.

   Gaia giunse inaspettata e sola. Si presentò in abito nero, nel non colore che inchioda gli sguardi e innalza difese. Nel modo di baciare e abbracciare il Pasina molti notarono un rapporto speciale tra l’elegante spettatrice e l’autore della commedia i quali per qualche tempo sparirono alla vista. Lei quindi ritornò in sala incontrando Alberto e con lui sedette in prima fila. Al giovane non dovevano mancare argomenti interessanti anche per acquisire trasversalmente elementi che completassero il quadro della signora abbozzato dalla promessa sposa. Tennero un posto libero per Soti che nel salutare in giro conoscenti di riguardo parve come in fuga fino allo spegnersi delle luci.

   Allo sguardo muto di Gaia, quando finalmente venne a sedersi, lui rispose sottovoce: «Dovrei aver paura.»

   «Fai come me. Tormenta i braccioli della sedia.»

   Il pubblico fu presto trascinato ad alti livelli di coinvolgimento. Applaudiva a scena aperta. La tensione dialogica del testo trovava le giuste voci che però nell’interpretazione aumentavano la distanza di temperamento, l’estraneità, la diversità di destino tra due sorelle. Avveniva una forzatura in certi dialoghi che, se vivacizzava lo spettacolo, impressionava lo stesso autore il quale si sentiva piacevolmente tradito. Al momento degli applausi finali, quando Claudia si presentò da sola a ringraziare, fu il diluvio. Gli spettatori si levarono in massa in piedi. Avevano sì apprezzato il personaggio dominante di Sofia nella sua rassegnata solitudine, nelle sue battute al veleno verso il padre e verso uomini che lei detestava, ma Clodia era la ragazza pronta a fidarsi, ad accettare i rischi, non per leggerezza, come poteva apparire superficialmente, bensì per una intima natura alla disponibilità. Insomma il pubblico si era lasciato avvincere da questa figura al di là delle superbe attrattive fisiche dell’interprete.

   A sala semivuota, quando parenti e amici si confusero con gli attori per baci e congratulazioni, sulla bocca dei festeggiati si dipingeva il classico sorriso contenuto e serio di chi è soddisfatto di un lavoro svolto con il massimo impegno e con il continuo timore del fallimento. Claudia riceveva forse più di tutti complimenti e abbracci calorosi, ma era come se non fosse scesa dal palcoscenico facendosi ancora schermo con il suo personaggio. Nessun giovane del cerchio intorno a lei pareva stare in attesa di portarsela via. Sofia invece, brava ad aver rappresentato una ragazza ondeggiante tra ribellione e malinconia, ritornava immediatamente nella vita reale immergendosi nelle belle chiacchiere con chi si avvicinava a salutarla. Aperta a un sorriso del tutto naturale, schietto, dolcissimo, proprio della donna che si sente amata.

(continua)

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