I versi di Donata Berra paiono voler scegliere una forma grafica che ricorda l’assottigliarsi verticale delle strutture portanti dell’interno della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, quasi a riprodurne l’arcuarsi e l’innalzarsi, il tendersi bianchissimo verso il lanternino in alto. Il tema è il tempo, il suo scorrere in contrapposizione alla volontà di durata espressa dall’opera. L’edificio è ormai compiuto, a Borromini resta soltanto da ornare l’interno della cupola: forse è questo il momento più difficile, dare conclusione all’opera (un errore di valutazione, un eccesso e tutto ne sarebbe rovinato). Quella di Donata Berra è, nel movimento unico scandito solo dagli spazi bianchi del passaggio di strofa in strofa, una delicata meditazione sull’estraneità assoluta del tempo rispetto alla nostra esperienza esistenziale. Vedo proprio nel rigo vuoto tra strofa e strofa l’apparentemente semplice, ma davvero efficace e intelligente resa con gli strumenti della parola e dell’arte tipografica dell’effetto che dovrebbero conseguire le «stelle digradanti, bianche / su bianco, rilevate» inventate dall’architetto per instaurare il suo singolare dialogo col tempo; l’occhio e la voce devono fermarsi a ogni cambio di strofa, proprio come, immagina Berra, accade al tempo che, percorrendo ad ascendere la cupola, si soffermerebbe sulla bellezza delle stelle borrominiane che sono «bellezza del ritmo».
Non c’è nulla di diverso dallo scrivere in poesia, se è vero che anche nella scrittura il ritmo dona bellezza al testo e il dialogo ingaggiato da Borromini con il tempo diviene in ultima analisi dialogo di carattere estetico, avendo rinunciato l’artista a persuadere il tempo di un qualcosa cui quest’ultimo è intrinsecamente indifferente: la pena del vivere resta nella storia personale e inapparente dell’architetto, ciò che il tempo (e con lui i contemporanei e i posteri) vedrà e apprezzerà sarà la bellezza del ritmo.