Mario Marti è stato un maestro. Il maestro è colui che ha qualcosa da insegnare: un metodo, uno stile di vita e di studio, ch’egli ha appreso con fatica e dedizione e intende trasmettere agli altri; è colui che mostra agli altri il limite oltre il quale non è lecito andare, entro il quale occorre mantenersi, sotto pena di confondere la propria parola con le innumerevoli parole che vanno a perdersi nel chiacchiericcio diuturno del nostro mondo. Il maestro è colui che dichiara che cosa può essere detto con sufficienti ragioni per non sbagliare. Nel secolo lungo, che per me si chiude oggi, un Novecento iniziato nel maggio del 1914, Marti ha esercitato un magistero che lascia un segno più che tangibile, la scuola leccese di letteratura italiana, nella quale si continua a professare la sua idea degli studi di critica letteraria come filologia integrale. Il maestro è sempre il depositario di una verità e, dunque, la sua parola ha inevitabilmente il carattere della conservazione. Mario Marti è stato il grande conservatore degli studi di letteratura italiana ed in particolare di critica letteraria: tutta la sua opera si può leggere come una lunga azione di contrasto alla deriva degli studi di italianistica, che del troppo e del vano hanno fatto spesso la cifra distintiva del proprio blaterare. Egli ci ricorda che solo nella storia, alla luce della storia, la letteratura acquista un senso. Ecco perché quando leggeremo un libro o ci capiterà di scrivere qualunque cosa, continueremo a chiederci: – Che cosa ne penserebbe Mario Marti? -, come fosse sempre vivo, tra noi.
[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 180-182]