Mario Draghi, la competitività europea e i nuovi Mezzogiorni

di Guglielmo Forges Davanzati

L’economia europea perde posizioni nella competizione internazionale e sperimenta, al suo interno, una costante crescita delle divergenze regionali (l’impoverimento relativo del Mezzogiorno rispetto al Nord è parte di questa dinamica). A Mario Draghi, come è noto, è stato affidato il compito di redigere il rapporto sulla competitività europea, che verrà ultimato verosimilmente a giugno prossimo. Nel discorso dello scorso 15 febbraio all’Economic Policy Conference di Washington (durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award), che va letto insieme a quello all’Ecofin del 24 febbraio, ne ha resi noti i fondamentali ingredienti.

Partiamo dalla diagnosi. L’ex Governatore della BCE formula due critiche. La prima è rivolta al modello della globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni, che avrebbe portato squilibri commerciali in un contesto di crescente partecipazione agli scambi commerciali internazionali di Paesi che avevano punti di partenza, in termini di livello di sviluppo, molto diversi. Draghi riconosce che le delocalizzazioni prodotte dalla globalizzazione hanno considerevolmente ridotto la quota dei salari sul Pil, creando ostilità in coloro che ne sono risultati danneggiati. Così come, contrariamente alle promesse, la globalizzazione non si è associata alla diffusione dei valori orientati al rispetto delle libertà individuali e della democrazia. La seconda critica attiene alla politica economica e da qui origina la sua proposta. Draghi osserva correttamente che l’UME ha puntato, per la sua crescita, su un modello trainato dalle esportazioni, in una condizione di competizione fra i Paesi membri, che risulta perdente nel lungo periodo. Da qui la sua prescrizione: emettere – più del poco fin qui fatto – debito pubblico europeo per finanziare, in modo cooperativo fra Paesi dell’Eurozona, investimenti pubblici finalizzati, in particolare, alla transizione ambientale e digitale. Si stima un costo complessivo di 500 miliardi l’anno, ai quali occorre aggiungere la spesa per la Difesa. Si ritiene rilevante, a tal fine, un uso più produttivo dei risparmi europei, molti dei quali congelati nei conti correnti delle banche. Nell’impostazione fatta propria da Draghi, il ruolo della Banca europea degli investimenti (BEI) potrebbe essere rilevante.

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