di Antonio Devicienti
C’è un Gatto che, insieme con il Cane, è una delle sculture indimenticabili di Alberto Giacometti: esso attraversa il pensiero che s’è fatto spazio e la luce entra da un finestrone dell’atelier; filiforme attraversa in permanenza l’hangar o l’officina alla periferia parigina. Nella consumazione, nel diventare niente, nel ridiventare materia, cuore rappreso in pochi grumi di bronzo. Si consumano i corpi quasi cercassero la sparizione, ma resiste qualcosa in essi che non vuole morire – oppure si materializzano nell’ombra luce del mondo (una gamba, un passante, una donna).
Alberto si netta le mani sporche di creta con uno straccio ed esce alla luce di Rue Hippolyte Maindron; il suo Gatto galleggia nella polvere minerale addensata sui mobili (è demone di greca sapienza), lo precede sulla strada verso il caffè: lì la colazione sarà frugale.
Forse verrà Char in visita questo pomeriggio e intuirà: il Gatto di Giacometti generato dalla folgore incontra mani segnate all’arte. Vedrà il suo amico colpire la tela con rasoiate di pennello e il Gatto indicare con la testa tesa verso l’oltreparigi la grazia sconfinata dell’istante.