Il procedimento non è di recente invenzione, è assai antico. È intitolata «De vita Iulii Agricolae», la giovanile biografia encomiastica dedicata da Tacito al suocero Gneo Giulio Agricola, scritta tra il 97 e il 98 dopo Cristo. La parte centrale dell’opera è dedicata ai 7 anni che Agricola visse come comandante in Britannia: condizione gloriosa e prospera per i Romani dominatori, atroce per i dominati. Il britannico Calgaco così si esprime: i Romani «auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant». Cioè, più o meno: ‘i Romani con falsi nomi chiamano ordine e diritto di comandare ciò che è rubare, trucidare, rapire e, dove fanno il deserto, dicono che si tratta di pace’. Confesso che non riesco a dimenticare le parole di Calgaco ogni volta che vedo scorrere in televisione le immagini dei carri armati israeliani che avanzano in Palestina, per ripristinare la pace in quel territorio (così dicono i governanti israeliani). Come non dimentico le atrocità terribili commesse da Hamas il 7 ottobre 2023 contro inermi cittadini israeliani.
Simulare una realtà falsificata è accorgimento costante nei comunicati di guerra: si parla di «danni collaterali» per alludere a distruzioni, feriti e morti presentati come non intenzionali; o di «fuoco amico» perindicare il bombardamento inavvertito contro la propria gente. Ecco cosa scrivevano alcuni giornali nei giorni intorno alla metà di dicembre dell’anno scorso: «Tre ostaggi israeliani uccisi dal fuoco amico dei soldati di Tel Aviv»; «Chi sono gli ostaggi uccisi dal fuoco amico»; «Tre giovani uomini deceduti sotto il fuoco amico dei soldati israeliani». La metafora ha successo: in una cronaca calcistica è stato definito «fuoco amico» l’autogol di un difensore che involontariamente insacca la palla nella sua porta. Impariamo a riconoscere gli eufemismi, che spesso non sono onesti: l’invasione armata di un paese viene definita liberazione, l’invio di militari e di carri armati diventa «esportazione della democrazia». La guerra in Iraq era «operazione tempesta nel deserto» e, a distanza di tempo, la guerra in Vietnam è indicata come «conflitto del Vietnam» (conflitto è meno cruento, può sembrare un banale contrasto). L’uso di perifrasi per indicare gli stermini di massa risale a tempi remoti. Rientrano in quest’ambito espressioni per definire l’uccisione consapevole delle minoranze etniche, come «campo di concentramento»o «soluzione finale», trasportate dal nazionalsocialismo tedesco al fascismo italiano; è d’origine più recente, l’espressione «pulizia etnica»che si è affermata in luogo di genocidio o sterminio durante la guerra nei Balcani.
Anche fuori dal contesto strettamente militare, organizzazioni, strutture, istituzioni ricorrono a forme edulcorate per mascherare decisioni impopolari. Si parla di lavoratori in esubero, non licenziati; le tariffe sono ritoccate, non incrementate; i prezzi si assestano, non crescono; gli emolumenti dei politici vengono adeguati, non aumentati. Dal momento che l’esplicito riconoscimento di crisi economica potrebbe far perdere consensi a chi governa, si allontana il rischio definendo la crisi «crescita negativa» (con un ossimoro clamoroso che non sarebbe spiaciuto a coloro che si entusiasmavano per le «convergenze parallele», peraltro escogitate con più nobili fini).
Un ambito particolarmente rilevante per ciò che riguarda l’occultamento è la lingua dell’economia e della finanza. Per evitare la percezione negativa dei licenziamenti vengono utilizzati eufemismi come «ristrutturazione» o «adeguamento del personale», senza che sia specificato in quale direzione (concretamente verso il basso) si ristrutturi o si adegui. Una ditta comunica «non rientri nei nostri progetti», non dichiara esplicitamente «non ci interessi», «sei licenziato», «hai perso il lavoro». Riconoscere i trucchi di alcuni eufemismi fa bene alla mente.
[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 23 febbraio 2024]