La scelta della canna mi fu dettata da quella scia spumosa detta in gergo cacciata; l’approntai ad hoc e cominciai a pasturare. Quel sabato ebbi la conferma dell’imprevedibilità e mutabilità del mare, che era ‘da occhiate’, mentre io vedevo un turbinio di pinnule nere nel biancore spumoso non riconducibile ad esse. Il primo pesce si slabbrò fuori dall’acqua, ma ebbi il tempo di riconoscerlo: leccia, una grossa leccia; ne seguì una serie di catture e tutte di grossa taglia. Cullavo, però, la speranza che si afferrassero occhiate da un momento all’altro, ma il galleggiante mai partì a razzo e per questo sentivo il cuore un po’ arrabbiato. Le cercai più a fondo, temendo che la presenza di lecce in superficie le trattenesse giù, ma niente; lecce, solamente lecce, tante da riempire due buste. All’improvviso cambiò corrente, la cacciata prese altra direzione e la spuma cominciò a diradarsi. Sparì il pesce. Per sgranchire le gambe uscii da quell’incavo e un grappolo d’uva alleviò la mia sete. Camminavo sulla scogliera in attesa di prendere una decisione. Pensai a quanti, sorbito brodo caldo, s’erano concessi una pennichella, ma senza invidia: ero sazio di mio, sazio di altro. Osservavo il mare che ancora spumava, ma poco, a cento metri da me e là riprovai: niente, nessun tocco nella spuma residua. Chissà dove s’era spinto il branco al cambio della corrente!
Il sole mi cadeva dritto negli occhi quando decisi di smettere. Avevo un buon bottino di lecce, ma lo avrei preferito di occhiate. Presi la via di casa, girando da Sannicola per premunirmi di altra esca. All’amico Rosario, decano dei pescatori di canna e di barca, chiesi come mai lecce e non occhiate. “Lecce?, non è periodo”; al che gliele feci vedere e pesare: sette chili tondi tondi. Sul mare mai dare nulla per scontato.