Inchiostri 105. Char e Giacometti (ma non solo)

Chi saprebbe dire in modo più pregnante e conciso di Char? Eppure la scrittura del poeta provenzale e l’arte dello scultore e pittore di Stampa sanno generare altre parole, variazioni potenzialmente infinite sul tema; James Lord, Jean Genet, Yves Bonnefoy, John Berger hanno scritto su Giacometti, sfogliarne i loro libri, spesso corredati da foto, consente di ripetere la visita che Char rese all’amico carissimo ed è interessante notare come le sculture giacomettiane in fotografia (ma anche il volto peculiare del loro autore, i vari luoghi dello studio) non abbiano la smorta piattezza di altre sculture fotografate, ma sembrino conservare la loro tridimensionalità: «Un giorno», scrive John Berger in My Beautiful (Bruno Mondadori, Milano 2008, traduzione di Maria Nadotti), «qualcuno chiese ad Alberto: “Quando alla fine le sue sculture devono lasciare lo studio, dove dovrebbero andare? In un museo?” E lui rispose: “No, seppellitele nella terra, così faranno da ponte tra i vivi e i morti”» (pag. 16); e poi: «In questo libro Giacometti e Trivier sono alla ricerca di una zona d’esperienza dove il rivelarsi equivale a un incontrarsi. O, per dirla altrimenti: entrambi testimoniano non di uno stato dell’essere, ma di un comune atto di divenire. Entrambi lasciano dietro di sé la traccia di un moto, non in avanti, ma verso. Un moto verso, con le gambe e uno sguardo, una lingua, un ascolto e una solitudine» (pag. 56). Marc Trivier ha splendidamente fotografato le sculture di Giacometti che costituiscono il testo per immagini del libro, l’anima visiva dell’opera che dialoga incessantemente con i testi in prosa di John Berger il quale anzi, proprio in apertura scrive: «La prima cosa da fare è osservare le foto. Smettete di leggere. Per favore, guardatele di nuovo» (pag. 12).
Oppure si pensi all’atelier: «Molto tetro – Giacometti rispetta la materia al punto che s’offenderebbe se Annette levasse la polvere dai vetri», scrive Genet nel suo L’atelier di Alberto Giacometti (traduzione italiana di Massimo Raffaeli, Il melangolo, Genova 1992) e più in là: «(Settembre ’57) La statua più bella di Giacometti – parlo di tre anni fa – l’ho scoperta sotto il tavolo, curvandomi a raccogliere una cicca. Nella polvere – l’aveva nascosta lì – il piede d’un ospite sbadato rischiava di spaccarla…
LUI – Se davvero è tanto forte, si farà vedere, pure se la nascondo» (pagg. 32 e 35, 36).

Lo studio di Rue Hippolyte Maindron 46 è davvero, come ben scrive Char, un’officina di maniscalco, un luogo cioè dove arde il fuoco e uno spazio all’interno del quale l’accumulo di detriti, sculture, tele, attrezzi è manifestazione visibile della ricerca febbrile di Giacometti. E davvero le foto che possono capitarci tra le mani testimoniano l’inesausto cercare, l’insoddisfatto ricominciare: Giacometti si rimette ogni volta al lavoro, anzi, è capace di andare avanti per ore, il suo è un corpo a corpo con la possibilità di rappresentare la realtà per come egli la percepisce, alla maniera di Cézanne e direi di Morandi la sua arte è uno studio ininterrotto e disperato, una serie interminabile di sondaggi dentro la realtà, un modernissimo accumulo di tentativi, come se, nel nostro tempo, avesse più senso il processo artistico che il suo risultato compiuto.

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