L’amore per il Sud emerge in maniera dirompente dai suoi versi, proprio nella forma genuina a cui allude Rina Durante: “gli bastava fare i nomi dei luoghi o delle persone, perché il risultato fosse di grande suggestione poetica”. Alle volte, nei versi sul Salento, si affaccia un “tu”, chissà se ad apostrofare un lontano e ipotetico visitatore o se, magari, interiorizzato nel tentativo di sfiorare una parte di sé desiderosa di assopirsi nel sole dei pomeriggi di agosto, di riposare lontano dalle lotte e dai dolori: “E qui, se mai verrai, l’estate/quietamente si sfanno obelischi/e cattedrali come sortilegi/consumano in esilii avventurosi”. Ma il cuore di Fiore non è fatto per riposare, non può darsi pace: “La poesia di Vittore Fiore, vista nel suo insieme e nelle sue note predominanti, suona come un inno di battaglia” sostiene Luigi Scorrano. L’istinto alla lotta nasce da una rabbia congenita, che prima di essere sua era del padre, Tommaso Fiore, autore di “Un popolo di formiche”, un racconto del Sud nella forma di reportage epistolare in cui tracciava un lucido ritratto della Puglia e delle sue condizioni politiche, sociali ed economiche, una discesa negli inferi dei dimenticati dalla Storia, di un universo “serrato nel dolore e negli usi, senza conforto, senza dolcezza”. Vittore trasforma quella rabbia in passione e se la passione incontra l’arte i versi diventano discorsi d’amore. La poesia impegnata di Fiore è poesia d’amore per una gioventù impaziente di cambiamento, è una poesia che grida alla condivisione di attese, di speranze brucianti, è un canto alla partecipazione, un suono che risvegli la coscienza comune. Esprime, come sostiene Antonio Lucio Giannone, “una volontà di comprendere e di lottare e una predisposizione alla speranza”. E ancora è la poesia del ricordo e dell’infanzia (“Ero nato sui mari del tonno/dove l’Jonio mostra la sua dolcezza e all’inverno il suo terribile moto”); è una poesia che racconta che “il viso dei pescatori/ha la forma del vento”; è poesia della storia e della memoria (“gridava le sue perdute/speranze la Magna Grecia”); è poesia di paesaggi interiori che si riflettono nell’alternarsi dei colori dei cieli della Puglia: “è tardi. C’è un gran tramonto./Ambiguo e solo a quest’ora oscilla/verso prode insicure”. L’angoscia del futuro si fa e si disfa come fanno obelischi e cattedrali, prima solida come di pietra, poi fragile come foglie spazzate dal vento, si sgretola come sabbia tra le dita di fronte alla sublime bellezza della sua terra. Della terra in cui è nato, dei suoi porti, delle sue acque, del suo “vento azzurro”, dei suoi vecchi dal viso fatto di vento, una terra fatta di pennellate di colori, di voci, di sguardi e di tutti quei sogni che “quieti inquieti mi succhiano il cuore”. Vittore Fiore è morto che aveva 79 anni e quello che ha fatto per il suo Sud nessuno lo può dimenticare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 21 febbraio 2024]