di Antonio Montefusco
«Dio, intendi al mio adiutorio. Signore, affrétati d’aiutarmi. Tu hai permesso che io sia sola in questa battaglia.» Nel gennaio 1380 Caterina da Benincasa scrive una delle sue ultime lettera al suo confessore e direttore spirituale, il frate domenicano Raimondo da Capua: ed è, come al solito, una lettera di lotta. Caterina era arrivata a Roma il 20 novembre del 1378. Questa «piccola donna che ci confonde» (sono parole del papa in carica, Urbano VI) era venuta nella città eterna dopo che il sacro collegio aveva eletto un secondo papa, alternativo a quello sul seggio di Pietro, Clemente VII. Caterina aveva un’idea intensamente organica del corpo della Chiesa. Che ci fossero due teste, era impensabile; che una parte del mondo cristiano aderisse all’antipapa (un “demonio” e un “anticristo”, nelle parole della senese) era una ferita, anzi il netto taglio di un arto da quel corpo unitario, tenuto in vita dal sangue di Cristo. Ogni ferita era una perdita di sangue, un taglio netto di un membro: il membro imputridisce, il corpo impallidisce. Nello scorcio di un secolo tormentatissimo da guerra e epidemia, inizia uno scisma che durerà fin dentro il secolo dell’Umanesimo.