Parole, parole, parole 6. Il diritto linguistico al genere femminile

Considerate queste premesse, meno comprensibile appare il commento finale di Perrotta: «tra maestro e signora, scelgo maestro». Opportunamente Fraioli osserva: «Ci saremmo aspettati che la scelta cadesse tra Direttrice e Maestra» (e non Maestro): «laddove il termine al femminile esiste (…) sarebbe bene usarlo senza alternative». È proprio così, nella lingua italiana la parola «maestra» esiste fin dall’antichità, nel significato di ‘donna particolarmente abile in un’attività’. E dunque chiediamoci: perché Perrotta, che pure rivendica la propria professionalità e il diritto anche linguistico al genere femminile, ricorre in questo caso al sostantivo maschile maestro?

La questione non nasce oggi e ha evidenti riflessi sociali. Quando parliamo di donne diremo che sono chirurgo (o chirurga), ministro (o ministra), magistrato (o magistrata), rettore (o rettrice)? Alcuni credono che il maschile non marcato (sempre chirurgo, ministro, magistrato, ecc.) concentri l’attenzione sulla funzione e vedono nell’introduzione del corrispondente femminile una sorta di diminuzione, come se la parola al femminile rendesse quel ruolo meno importante. Altri invece caldeggiano la diffusione dei sostantivi femminili, per sottolineare la piena dignità dell’impegno professionale delle donne: la lingua è importante, non è solo una questione grammaticale, il rispetto passa anche attraverso la sottolineatura del genere.

Sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adottare un linguaggio consono alle nuove realtà sociali sono forti. Le ragioni di questo rifiuto risiedono, a seconda dei casi, nell’incertezza di fronte a forme femminili nuove, nella presa di distanza rispetto a quello che appare una sorta di ipersindacalismo linguistico (“le differenze non si eliminano con trucchetti terminologici”) e, frequentemente, in valutazioni che potremmo definire di tipo estetico: i nuovi sostantivi femminili appaiono “brutti”, “non piacciono”, di conseguenza risultano inaccettabili.

In realtà il rifiuto di certi sostantivi al femminile nasce da un pregiudizio ideologico, forse inconsapevole. Parole come cuoca, infermiera, sarta, ecc. non suscitano perplessità; troviamo ovvio e naturale parlare cosi, le donne praticano da sempre quelle attività. Invece restiamo perplessi di fronte a sindaca, assessora, architetta, perché questi sono ruoli o professioni nuovi per le donne. Anche nello sport. Spesso le cronache calcistiche definiscono arbitro (e non arbitra) la francese Stéphanie Frappart che ha diretto alcune partite dell’ultimo campionato mondiale di calcio e l’italiana Maria Sole Ferrieri Caputi, che dirige con bravura e autorevolezza partite del campionato italiano. Non si accetta arbitra, al femminile, perché si tratta di una novità. Ma in ambito sportivo non suscitano obiezioni sciatrice o nuotatrice, ci siamo abituati. Qualcuno definirebbe sciatori Sofia Goggia e Federica Brignone o nuotatori Federica Pellegrini e Benedetta Pilato? Per sci e nuoto non facciamo una piega di fronte ai nomi femminili.

Perché certe parole come «sindaca» o «ministra» (declinate al femminile) sarebbero “orribili” e “abominevoli”,  come ebbe a dire nel dicembre 2016 l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, durante il discorso di ringraziamento per un premio da lui ricevuto? Dobbiamo abituarci a una realtà che cambia, con le donne che assurgono a funzioni inconsuete o impossibili nel passato. Tullio De Mauro, linguista insigne, ha dichiarato in un’intervista: «Quando abbiamo iniziato a dire “ministra” e “sindaca” molti hanno sobbalzato. Ma donne ministro o sindaco non c’erano mai state. Nato il ruolo, è giusto che il vocabolario si adegui. La lingua ci autorizza a usare i femminili. Usiamo i femminili, con qualche attenzione».

Giorgia Meloni vuol essere definita “il presidente” (con l’art. maschile), Beatrice Venezi (di cui parlano le cronache dei nostri giorni) pretende d’essere chiamata «direttore» d’orchestra, al maschile. Ma usare la lingua in modo congruo non è un vezzo italiano, tutt’altro. In Francia si dice regolarmente «la ministre, la presidente, la juge, la conseillere»; in Germania Angela Merkel è stata «kanzlerin», una ministra è «ministerin»; in Spagna hanno normalmente «la presidenta, la profesora». Chi sceglie per l’italiano le forme femminili per le professioni adopera con efficacia le risorse flessive a disposizione dalla lingua. La società cambia, cambiano i ruoli delle persone: la lingua, opportunamente, rispecchia i mutamenti della società. Oggi, con la società in movimento, possono essere declinati al femminile nomi fino a poco fa usati solo al maschile. La stampa può avere un ruolo fondamentale per la promozione dei femminili professionali. Seguiamo le regole della grammatica, senza violare la norma (e senza forzature ideologiche). Accostiamoci ai tempi, semplicemente. E mostriamo, anche con la lingua, rispetto per le donne.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” del 10 febbraio 2024]

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