Anna Adornato, Indivisi

La consistenza del colore. Lui che lo individuava e gli dava un nome: marrone. Se c’era ancora un colore da sillabare allora lui era lì, era ancora una persona, un materiale organico vivente, non era vero che si stava scomponendo e allora tanti pezzettini di lui adesso erano sparsi sul pavimento, e forse si poteva arrestare il processo di non-persona, di lui che a un tratto non c’era più. Ma la tazzina era marrone. Esisteva nella porzione di spazio circostante. Appena dieci grammi di plastica colorata. Qualcosa di stabile e vero mentre il suo mondo crollava”. Allora una tazzina di plastica marrone, sporca di caffè, illuminata da una polverosa luce mattutina o un tagliaunghie abbandonato sullo specchio del bagno salvano dall’abisso perché tengono ancorati al reale, al visibile, al tangibile. Allora la morte si deposita sul fondo di una tazzina, il suo spettro balena nel freddo marmo delle mattonelle del bagno, nel nero dei cappotti appesi all’ingresso della casa, nella consistenza gelatinosa della marmellata sul tavolo della cucina, nelle pieghe di un cuscino stropicciato dall’insonnia che maledice le notti. La morte negli oggetti si deposita ma, al tempo stesso, in essi si fa meno orribile, meno devastante quando sugli oggetti si impara a cadere, a perdersi, a neutralizzare i pensieri.

In “Indivisi” si racconta come si possa essere identici nella diversità, cosa significhi sopravvivere senza un organo vitale, come si possa imparare a rinunciare a una parte di sé che, improvvisamente, viene meno. Cos’è Simone senza Sophia? Cosa comporta essere dei superstiti? Rimanere uno di due? Perdere il senso, la ragione, il significato dell’esistere? “Indivisi” è parte di una letteratura ombelicale degli affetti. Degli affetti solidi, immortali, viscerali, quelli del sangue. È un romanzo corporeo in cui un fratello conosce e ricerca le pieghe del corpo di una sorella, impara a riconoscerlo come orizzonte e latitudine di immensa complessità, soprattutto nella sua assenza.

Adornato parla di dolore. Perché, magari, la letteratura non può parlare che di questo. Del dolore dello stare al mondo, della caduta e della perdita. Ma parla anche di come, poi, rimettersi in piedi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 5 febbraio 2024]

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