Forse è una ragione antica. Forse, ora come allora, per quei giorni che dura la kermesse la gente si spensiera. Aderisce alla sua finzione. Una ragione antica: una volta rappresentata dal feuilleton, dal romanzo popolare, per esempio. Altre volte da tutta la tv di intrattenimento. Lustrini e paillettes. Non c’è nulla di male, se ci si spensiera. Se per qualche sera si fa finta – ma si fa finta – di dimenticare le guerre che incendiano il mondo, e tutto il resto. Non c’è niente di male se ci si appassiona – o si fa finta di appassionarsi – a quella gara che si ripete da sette decenni e mezzo, scommettendo su chi vince e su chi perde, su chi arriverà primo secondo terzo ultimo e penultimo, argomentando se quello meritava di più, se quell’altro di meno. Ma sempre con la consapevolezza, ormai consolidata, che alla fine trattasi solo di canzonette, che non cambiano il mondo perché non vogliono e non possono cambiarlo: non è questa la loro funzione. Nel corso di questi anni, qualcuno ha preteso che Sanremo rappresentasse lo specchio dell’identità nazionale, senza considerare che l’identità nazionale è plurale, come ci insegnano la storia, la lingua, la letteratura. Altri hanno preteso di rintracciare nel festival una qualche ideologia, di utilizzarlo nei dibattiti sulla cultura delle classi sociali. Per decenni gli sono state rivolte accuse di disimpegno. Ma al festival si cantava e si canta. Basta. Probabilmente è stata proprio la dimensione del disimpegno a costituire la sua salvezza, tenendolo al riparo dalle raffiche di vento che in certe stagioni scompigliavano il Paese. Le cose si devono valutare per quello che vogliono essere e che sono. Se si sbaglia metodo di valutazione, si rischia di non comprenderle. Allora si deve ammettere che per molto tempo non abbiamo compreso Sanremo, perché abbiamo adottato un metodo di valutazione incoerente, inadeguato. Anch’io, che per anni l’ho criticato su questo giornale. Pretendevo uno spessore dei testi, per esempio, e non capivo che i testi disimpegnati erano parte significativa della finzione elaborata dal festival.
Nel contesto, nelle forme e nelle espressioni della sua finzione, Sanremo non ha mai dimostrato contraddizioni. Ha cercato soltanto di essere spettacolo, di attribuire bellezza allo spettacolo. Per il tempo che dura Sanremo il mondo si divide in tre parti, nette, precise: il mondo che c’era prima che cominciasse, il mondo che c’è mentre il festival accade, il mondo che ci sarà quando sarà finito. Non si può e non si deve commettere l’errore di paragonare, di tentare di conciliare i tre mondi. Perché sono imparagonabili, inconciliabili. Hanno una natura diversa. Girano in un modo diverso. Il mondo che c’è prima che il festival cominci appartiene alla realtà, come alla realtà appartiene il mondo che sarà quando finirà. L’altro appartiene alla finzione che forse vuole anche porsi in contrapposizione con il primo e con il terzo.
Il mondo di Sanremo dice così: mettetevi in poltrona, toglietevi le scarpe, stendete le gambe, non abbiate presunzioni da intellettuali, non fate molta filosofia, molta sociologia, non pretendete che sia tutto razionale, non pensate a niente, immaginatevi piccoli borghesi, se vi viene il sonno potete anche dormire, se ci riuscite potete anche sognare.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 4 febbraio 2024]