di Antonio Errico
Da allora è cambiato tutto. Sono passati tempi belli e tempi brutti. Dell’Italia che era non è rimasto nulla. E’ un’altra Italia. E’ un’altra storia. In settantaquattro anni si è verificata una trasformazione sociale strutturale, radicale. Si è verificata quella mutazione antropologica che aveva vaticinato Pasolini.
Però Sanremo va, qualche volta interpretando quelle mutazioni, secondo i suoi metodi, i suoi criteri. Con qualche intervento nei territori del sociale: come quando nell’Ottantaquattro gli operai dell’Italsider sfilarono davanti all’Ariston, e Pippo Baudo invitò una delegazione sul palco a leggere un comunicato sindacale. La platea ascoltò, capì, applaudì. Fra gli intellettuali si scatenarono serrate contese sul significato della vicenda. Ma erano solo lavoratori che esercitavano il diritto di protestare in quello come in un altro luogo. In altri tempi, al festival sono state rivolte tutte le critiche possibili. Si cominciò quando Luigi Tenco fece il suo gesto tragico, nella notte tra il 26 e il 27 gennaio del Sessantasette. Salvatore Quasimodo disse che con quel gesto aveva voluto colpire a morte il sonno mentale dell’italiano medio. Però Sanremo andava; va. Ha attraversato cinquant’anni di un secolo straordinario e spaventoso, le grandi speranze degli anni Sessanta, l’autunno caldo, gli anni di piombo, le rivoluzioni culturali e sociali, gli anni del riflusso, quelli dell’effimero, tangentopoli e la prima repubblica; è entrato nel secolo nuovo, con tutte le sue incertezze, i suoi smottamenti. Ha superato mode, voghe, tendenze, stili, modelli. Guardava ogni cosa che arrivava e si diceva: anche questa passerà, e quella passava, e il festival restava a cantare il suo disimpegno. Qualche ragione ci dev’essere.