Salvatore Pasina, direttore della biblioteca del paese ed attore dilettante nella compagnia Idrusa si era immerso per alcuni mesi nella scrittura di Ritorno in accademia pensando che Sofia fosse contenta di piacersi nei panni di una figlia che muove feroci critiche ad un padre sommamente detestabile, colluso con i corrotti, con i peggio dotati di cinica sfrontatezza. Adesso il testo veniva rigettato da una giovane peraltro sempre scontenta di sé, in continua altalena emotiva. Poteva sorprendersi, esaltarsi leggendo le battute feroci e sarcastiche che avrebbe dovuto far sue accogliendo applausi, invece le stava succedendo di rifiutarle come a guardarsi in uno specchio distorcente.
«Secondo te è un lavoro che può aver successo? Sarà rifiutato perché confuso e contorto. Mi dici cosa vuoi combinare con queste sciocche fantasie?»
«Fai conto che io non abbia scritto nulla. Si chiude.»
Scene di impietose contestazioni lui le aveva immaginate per il palcoscenico e non che si verificassero in casa.
«Si chiude. Vediamo come chiudi. Hai rivelato a tutti che lavoravi a una commedia ideata per me. E poi, tanto per rimanere nelle mura domestiche, io rimarrei Sofia anche sulla scena mentre tu diventi Toti, che poco si discosta dal Soti come ti chiamano gli amici. Benissimo. In te c’è la volontà di punirmi pubblicamente. Devo mostrarmi in tutto autentica. La furia scriteriata di cui si ride. A venticinque anni è giunta l’ora che tu non mi veda più sprofondare in storie fallimentari. È così?»
«Ti ho sempre detto che intendo darti quel che posso senza pretese di ricevere nulla. Tu trascura tutto ciò di me che non ti aiuta.»
«Il tuo scritto non mi aiuta e mi fa solo pena.»
«Ho pensato a una giovane donna che lotta tenacemente contro un mondo che ha in orrore.»
«Ma lascia perdere! Hai pensato male. La nostra compagnia è attrezzata per far ridere. E tu non hai la minima idea su cosa io voglia fare e contro cosa intenda combattere.»
«Valutavo le caratteristiche dell’attrice alla quale affidare l’interpretazione del personaggio.»
«Tentazione miserabile. Totale mancanza di percezione. E quali sarebbero le mie caratteristiche per le quali in certe scene mi esponi anche alla morbosità degli spettatori?»
A che razza di conclusione lei era giunta?
«Non ci sono scene nude da spiaggia» lui disse.
«Ci hai messo la situazione e le parole.»
«Invenzioni letterarie.»
«Da sprovveduto. Non mentire. Tu hai chiacchierato con la mia amica Claudia cercando complicità nel tuo modo di pennellarmi.»
Conversazioni casuali c’erano state tra il Pasina e Claudia Valletta, anche lei attrice dell’Idrusa e personaggio insieme con altri secondari nel disegno della commedia. Così l’idea di un confronto tumultuoso in scena aveva avuto per davvero origine nei momenti in cui riceveva velate confidenze sul travagliato animo di sua figlia.
«Papà, hai approfittato della sua fiducia.»
«Se Claudia mi ha raccontato qualcosa di personale questo riguardava sé stessa e non te. Chiediglielo, se vuoi. Quanto alla mia scrittura io ho immaginato due sorelle molto diverse di temperamento, costrette a scontrarsi anche tra loro. Non mi sembra una cattiva pensata.»
«Convinciti. È una cattiva pensata. Neanche a Claudia interesseranno le tue costruzioni. Lei è una donna che tu conosci superficialmente. Ti vuol bene come si vuole al genitore di un’amica. Forse pensa che tu abbia vestito di belle fantasie il personaggio destinato alla sua interpretazione, ma dalla lettura anche lei rimarrà delusa, se non sarà furibonda per le tue volgarità. Ma guarda, la chiami Clodia per un sapore romano antico di dissolutezza.»
Brutto segno. Sofia non riusciva a ipotizzare ripensamenti, a utilizzare il senso del tempo, a vedersi in un suo stato d’animo meno agitato.
«Sono io che devo licenziare il lavoro. Se non funziona, basta così. Per la prossima stagione la compagnia tornerà al repertorio solito per la villeggiatura.»
«Papà, non sfottere. Hai destato curiosità chiacchierando di un disegno a misura mia di corpo ed anima. Non capisco cosa vai ad almanaccare sulla mia vita e sui miei sentimenti. Alla fine risulterei una zitella isterica. Non potevi rimanere a divertirti come comparsa nelle nostre farse invece di esporti in questo lacrimevole modo?» Gesticolava come se stesse ancora scagliando fogli in aria. «Adesso aspettiamo con ansia il tuo misero esordio come autore e come primo attore!»
Di contrasti col padre su faccende sentimentali e sulle molto scarse prospettive di occupazione la ragazza era arcistufa e perciò detestava il tentativo paterno di trasfigurazione artistica. Lei rigettava con disgusto anche i colori satirici e le necessarie trovate per gli applausi a scena aperta.
«Ma se io già mi invento di mascherarmi in un padre invischiato nel malaffare e ti assegno un fidanzato altrettanto lazzaro, chi è quello spettatore sprovveduto che nella figura di una figlia turbolenta e infelice va a immaginare aspetti psicologici della sua interprete?»
«Tutti, perbacco! Non hai voluto ascoltare il mio parere di non parlare con nessuno della tua commedia prima di finirla. Ti avrei detto di eliminare tutto ciò che ti veniva ispirato dalle mie pazzie. Di togliermi di mezzo. Poi ti saresti arrangiato.»
Non era il parlare di una donna libera e serena. Con i lacci familiari ancora non sciolti ecco il protrarsi delle dolorose graffiature. Come a lucidità improvvisamente ritrovata il Pasina riconobbe una mancanza di attento controllo nel suo lavoro e di essersi spinto pericolosamente verso una convergenza tra volto e maschera.
«Mi impegnerò con le modifiche ad allontanare sospetti su un ritratto familiare. Poi se la compagnia si pronuncia per la realizzazione dello spettacolo troverò un’altra interprete e tu starai ad ascoltarti da altra voce.»
«Perfetto. Mi terrò in platea a godermi l’incesto tra pensiero e voce. Son sicura però che una cosa sono i tuoi annunci e un’altra la lettura del testo che porterà il regista ad un rifiuto perché non si lega a nessuna attualità, a nessun possibile intendimento di un possibile pubblico, intelligente oppure crudo senza lettere!»
Era vero. La ragione del giudizio era piena. Lui aveva ascoltato. Non c’era difesa.
Salvatore Pasina aveva insegnato storia e filosofia in diversi licei della provincia finché sui quaranta anni era passato a dirigere la biblioteca del suo paese sita in un edificio fronte mare. In alcune spaziose sale al secondo piano c’era anche un circolo letterario denominato pomposamente Atena e lui, socio eletto nel comitato direttivo, si trovava così a collaborare in più attività promosse da quello che di fatto costituiva il centro cittadino della cultura. Si sentiva onorato nel compito di presentare conferenzieri, scrittori, artisti nei tanti eventi che si succedevano. Data la vasta cerchia delle sue amicizie gli era stato proposto di entrare in politica con prospettive di ampie responsabilità ma aveva rifiutato perché col tempo era tornato a dominare in lui l’antico interesse per il teatro, allorché da insegnante preparava con i suoi allievi la recita di fine anno. Dapprima gli era capitato di aiutare la compagnia Idrusa nella scelta dei testi e in seguito aveva imparato ad adattarli. Soddisfatto di tale esperienza si era lasciato tentare dal palcoscenico sia pure in ruoli secondari. Infine superati da poco i cinquant’anni e mosso da una buona stima di sé aveva scritto una commedia convinto della immancabile rappresentazione e nella quale lui si immaginava nel ruolo di protagonista.
Sua figlia si era mostrata tutto sommato sempre orgogliosa delle iniziative paterne ma con sorpresa, seppure irragionevolmente, adesso aveva opposto il rifiuto sprezzante e totale.
«E oltre tutto convinciti,» aveva detto «faresti un disastro perché non ti riuscirebbe mai di ripetere esattamente le battute lunghe e tortuose che ti sei scritte.»
Portata a quattro anni a Torino dalla madre in seguito alla separazione dei genitori, Sofia dopo la licenza media aveva preferito tornare dal padre, non sopportando nuove relazioni familiari. Invogliata alle recite scolastiche era poi approdata agli spettacoli amatoriali. Un carattere difficile, inquieto, aggressivo, col tormento della non decisione, con la paura di fermarsi a mezzo di una ricerca, di un progetto di vita non ancora definito. Chissà dove sarebbe andata a utilizzare la sua laurea in lingue. Se non era già fuggita via era dovuto ai legami con la compagnia teatrale.
Ora a giudizio della figlia Soti Pasina spacciava un chiacchiericcio patetico e noioso per dialogo serrato, per sfolgorio di idee, per piccante scambio di battute al veleno. A lui restava una residua speranza che gli attori pur di recitare non si sarebbero preoccupati dell’insieme, pensando ognuno soltanto a come meglio proporre il proprio personaggio, mettendoci la propria arte. Sofia, se non aveva letto il testo superficialmente, doveva esserne rimasta sconcertata. L’autore, mentre si immedesimava nella parte del mariolo, assegnava al personaggio dell’amata figlia il ruolo di contestatrice, ma senza che in lei tra le vampe di collera spuntasse una parola di speranza o qualche profetico sogno. Soti ripensandoci con più calma giustificava il lancio di quella sessantina di fogli come un gesto mosso da un più generale sconforto.
La ragazza si era spostata nella zona notte della casa. Canticchiava nervosa. Una porta sbatteva. Qualche oggetto cadeva pesantemente. Lui con pietoso rispetto per i personaggi della sua fantasia, dopo aver raccolto e rimesso in ordine le pagine proteggendole dentro una custodia, si portò in studio per chiudere a chiave il tutto in un cassetto della scrivania. Andate, ragazzi, disse nel pensiero. Provate lo spettacolo da soli.
Affacciato alla finestra del suo studio sentì come un impulso a tendere le braccia al blu del mare e al cielo d’oriente che cominciava a incupire. I lampioni non si erano accesi come di solito a quell’ora. Con l’aria buona di una sera d’estate in paese cominciava la festa. Prima di tre sere di festa delle lanterne. Niente illuminazione pubblica per tutte le ore notturne nel centro storico, lampioni spenti nella zona del porticciolo turistico e niente fari accesi contro il castello aragonese che lo domina. Oscurata la prospettiva sul lungomare. Nelle aree liberate dalla circolazione veicolare la gente avrebbe mosso alle varie manifestazioni accompagnandosi con lanterne. Si era fatta pubblicità per l’acquisto a modico prezzo dei nuovi lumi dal disegno antico, leggeri da reggere in mano nel cammino e semplici da collocare a finestre e balconi. Erano venduti insieme con un piccolo pannello che sistemato di giorno al sole caricava la batteria. In tal maniera i responsabili della cultura e del turismo avevano inteso sfruttare le moderne invenzioni per un nuovo rito collettivo. La ragion pratica apriva un nuovo discorso col sole.
Pasina pregustò l’insolito avanzare del crepuscolo. Doveva respirare, incontrare gente, dimenticare le parole sprezzanti di Sofia. Una opportunità per camuffarsi nella reale novità di una festa progettata da menti fantasiose. Sapeva che sua figlia fin dal mattino era tesissima. Fra poche ore prima della mezzanotte in uno slargo sul mare sotto le mura avrebbe letto, alternandosi con Claudia, il secondo libro dell’Eneide. Mille occhi puntati su due belle donne impegnate a dar voce ad una storia resistente agli sforzi dell’immaginazione: la distruzione di una città e la strage dei suoi abitanti.
Per chi non avesse trovato modo di assistere comodamente seduto erano predisposti dei diffusori a lunghe distanze. Gente poteva salire su torri e bastioni ed anche godendo solo l’ascolto allargare la vista sull’orizzonte marino e sui rilievi collinari. Gli organizzatori avevano stabilito l’ora tarda d’inizio per una consonanza col soggetto e al declinare di ogni altro intrattenimento di festa. Nel silenzio pieno della notte.
2
Al primo piano di un vecchio palazzo ristrutturato l’appartamento dei Pasina guardava dalla zona giorno sul lungomare e per il resto su un vicolo lastricato a basoli sul quale dava il fianco un complesso chiesastico conventuale. Dal balcone angolare della sala se ne vedeva di scorcio il prospetto in quanto rientrante di alcuni metri rispetto alla linea della strada. Contro le finestre delle camere e la porta finestra della cucina si levava invece un muro cieco con il solo cancello di ingresso al chiostro. Attraverso la grata era visibile un riquadro dell’ambulacro e del colonnato. Soti osservava a tutte le ore un viavai di gente e di religiosi. Ci rifletteva da qualche tempo perché aveva avuto occasione di vedere sua figlia oltrepassare l’uno o l’altro ingresso. La ragazza sull’esempio della madre e poi del padre era stata sempre estranea alla religione. Al tempo degli studi superiori l’interesse per i fenomeni religiosi, quando compariva, volgeva alla interpretazione storica degli stessi. Di recente in mezzo ai suoi ritmi di esaltazione e depressione era spuntata la parola spiritualità. Lei la definiva una ricerca della mente che donava pace. Per suo padre un segnale di pericolo.
Indugiando tra finestra e scrivania udiva i vocalizzi stizzosi della figlia intenta a prepararsi tra bagno e camera. Lame da trapassargli il cuore. Già da qualche tempo Sofia aveva espresso intenzioni sia pur vaghe di tornarsene dopo la laurea in terre del nord e là cercare un lavoro sicuro e una nuova compagnia teatrale. In Soti l’idea di perderla per sempre spuntava ad ogni occasione di conflitto in cui lui doveva essere sempre la parte colpevole. Avvertì la tentazione di chiamarla e ascoltare le accuse ultime mancanti accettando in silenzio anche in appello una condanna emessa con sguardo feroce. Uscì in corridoio esitando ad avvicinarsi alla camera da dove adesso proveniva il gorgheggio. La porta era rimasta socchiusa forse a causa di una mano nervosa che non l’aveva bloccata correttamente. A lui apparve, voltato obliquamente verso l’interno e tagliato sul suo fianco destro dalla linea della porta, il corpo nudo della ragazza. I capelli cadenti da quel lato. La luce posava sulla superficie contenuta tra una lama dritta e un’onda sinuosa, comprendente il gomito teso ad angolo retto. Un corpo vellutato che forse si osservava nello specchio. Uno sboccio al suo culmine.
«Vedi papà» gli aveva detto «in teatro i tuoi dialoghi cretini alimenteranno lo sguardo cupido degli spettatori maschi sulla mia persona. Dimmi se ho ragione.»
Nell’apprestarsi ad abbandonare la casa Soti rivedeva nella mente una figlia che da tempo alternava stati di vivacità e musoneria. E lui nella commedia aveva tentato di mettere gli occhi nel guazzabuglio sentimentale di una donna dai rapporti sempre tesi con gli uomini. Un eventuale successo teatrale come surrogato dell’amore? Era meglio che lui non avesse scritto niente. Sofia aveva giustamente paura della irrealtà di un confronto in scena tra due soggetti tristi.
Quella figliola! Non si poteva dire che le mancassero le amicizie maschili. Vai te a sapere chi in un certo lasso di tempo potesse essere più segretamente assiduo. In casa non si vedevano singoli, né pattuglie che dopo le solite conversazioni la conducessero via. Un grande amore svanito? Era quel giovane studente di ingegneria, un timido che tutti avevano invidiosamente preso in giro? Sparito poi nel nulla? Le amiche sapevano di una storia interrotta ma lei ormai non ne parlava neanche con loro forse per non bruciare un sentimento di attesa.
Intrattabile sempre. Che il vento facesse spirare nuvole grigie da libeccio o da tramontana lei non raccontava niente di sé al padre con il quale piuttosto litigava per trascurabili problemi sulla conduzione della casa, passando poi ai confronti aspri sugli indirizzi di ricerca del lavoro. Eppure spandeva una potente carica di energia nello studio, nelle letture, nei rapporti con le persone. Instancabile, irruente fino allo spreco, lasciava pur sempre trasparire velature malinconiche. Forse si sarebbe calmata se avesse avuto un lavoro fisso con precisi orari. E ancor più con una vita sentimentale stabile. Oltre a impegnarsi a teatro qualche volta accompagnava gruppi di turisti qua e là per la provincia. Era chiamata a prestare la voce per documentari promozionali. Con Claudia, che le dava consiglio e conforto, aveva accettato di lavorare come cameriera saltuariamente e per poche ore in un bar. Il guadagno era ridicolo rispetto ai bisogni reali cui provvedeva il padre. La diversità di occupazioni si mescolava con cene, balli, concerti e fughe con ritiri all’alba. Abbattuta la si vedeva talvolta, mai stanca. Qualche volta era successo che venisse accompagnata sotto casa alle undici di sera da un giovane sconosciuto e un altro la chiamasse giù a mezzanotte. Via in macchina.
Per la discoteca.
Di recente Pasina aveva cominciato a scambiare il saluto con il frate francescano Alfonso Aloisio che incontrava negli immediati dintorni di casa e del convento. Tra i quaranta e i cinquanta, di media statura, calvo e occhialuto, camminatore spedito e ciclista su più lunghe distanze, era descritto da Sofia come un uomo di religione con grandi capacità di parola e predisposizione all’ascolto. Lei riferiva di avere assistito a qualche incontro teologico. Spesso si era fatta accompagnare da Claudia la quale a sua volta da qualche tempo pareva stesse allargando il suo interesse anche a questa tipologia di intellettuali timidi, di spirito aperto e non ossessionanti col genere femminile. Perché le due amiche stessero a incontrare il frate dicevano di non dover render conto a nessuno ammettendo un bisogno di confrontarsi sui grandi temi esistenziali e sociali.
Lei raccontava. Nel convento sede di parrocchia aiutavano la gente in difficoltà. Ogni frate operava secondo la propria vocazione e specializzazione. C’era il responsabile della mensa dei poveri, chi si occupava dei carcerati e delle loro famiglie, chi sbrigava pratiche per gli stranieri e insegnava l’italiano ai loro bambini, un altro ancora visitava gli ammalati. All’interno del complesso era attivo uno studio teologico. Misterioso, fuori della curiosità di atei e cattolici tiepidi. Comparivano giovani allegri in saio con l’aria di missionari in formazione oppure ospiti temporanei, forse reduci da aree tormentate da miseria e violenza.
Soti dalla finestra della sua camera o anche dal balcone della cucina osservava le donne che col freddo dell’inverno, con la pioggia, col caldo soffocante estivo aspettavano le tre del pomeriggio per l’apertura del cancello nel vicolo. Gli era capitato di vedere una giovane che a tratti passava il dorso della mano sugli occhi per asciugarsi le lacrime. Un’altra, irrequieta, muovendo avanti e indietro rasente il muro teneva occhiali scuri e lasciava che il sole frugasse attraverso la generosa scollatura. Si copriva con un foulard al momento che una tonaca compariva per avvicinarsi ad aprire. Soti era stupito di certe ragazze che attendevano davanti all’ingresso mostrando una linea seducente e un viso pieno di grazia ma freddo e triste. Strano che un’altra ancora trovandosi sola ad attendere si afferrasse alla grata a fissare il vuoto del chiostro. Nel riquadro a ogiva il suo fondoschiena rendeva gloria al suo divino scultore. Si staccava dalle sbarre al sopravvenire di altre donne. Le parole parevano uscire sulle labbra del tutto isolate, per pura cortesia. Da che tormenti fuggivano? Quale violenza lasciavano per trovare quale pace?
Era successo che l’Aloisio, dopo anni a incrociare Pasina senza levar lo sguardo, gli desse per primo il buongiorno, quasi un doveroso annuncio che aveva conosciuto sua figlia. Da quella volta non era mancato più tra loro un gesto veloce di saluto.
(continua)