di Salvatore Carachino
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Si dispose a raccogliere i fogli che la figlia con un gesto di rabbia aveva lanciato e sparso sul pavimento e sui tappeti. Neanche tentava di riordinarli per numero di pagina. Né la furiosa aspettava di rivedere il povero in piedi per fulminarlo in faccia.
«Ma che stranezze sei andato a scrivere, papà! Quelle carte sarebbero un testo teatrale?»
«Non è definitivo. Molto si può cambiare.»
«Ma cosa vuoi modificare! Manca il ragionamento. È un girare intorno con le stesse parole. Manca l’azione. Un padre e una figlia personaggi protagonisti e noi due sul palcoscenico a immedesimarci in quelli? Vogliamo far ridere regista e attori della nostra compagnia? Con le tue stupide invenzioni potevi meglio comporre un lamento filosofico. Sui massimi sistemi. Senza storia.»
Vivevano loro due soli a Otranto in un appartamento sulla litoranea. A finestre aperte una allegra tramontana estiva aveva aiutato il volo dei fogli nella sala. Alcuni erano finiti sotto poltrone e mobili, così nell’inginocchiarsi e prostrarsi era servita l’umiliazione.
«Chi ti ha detto che sarà assegnata a te la figura di Sofia?»
«Non l’hai chiamata come me, Sofia, quella disgraziata? Noi due a litigare anche in pubblico? Non esiste. Lasciami in pace.»