Onde non molto alte s’infrangono e ricadono formando scie spumose sulle rocce; ne scelgo una a poche decine di metri dal mio compagno e inizio a pasturare. Avremmo fatto sera e, a scanso di amare sorprese, controllo la torcia: tutto okay. Sfodero una sette metri (la lunghezza della canna dev’essere in rapporto all’altezza della scogliera e alla forza del mare). C’è luce piena nel meriggio assolato, quindi monto uno 0,16 con amo da 9; malote e pulici per esca. Delle une e degli altri so individuare a tentoni qual è la testa e quale la coda, sicché al buio non ricorro all’uso della torcia. Anche Nuccio fa quest’operazione con consumata perizia.
Al primo lancio parte il galleggiante come un siluro e recupero, nientemeno che un sugarello, pesce non autoctono che s’avvicina di sera sotto costa nel periodo di fregola; siamo nel periodo ma è tutt’altro che sera. La corrente è ottima, l’esca profumata, e le catture si susseguono numerose: una piacevole sorpresa. Mangiucchio quel panino (olio e caroselle sotto aceto per companatico) quando un sole screziato affoga all’orizzonte e il mare si fa cupreo. E’ l’ora più triste. Il mio amico, ombra tra le rocce, non fa uso di torcia e questo la dice lunga sulle sue capacità di districarsi al buio. Lo raggiungo, ha già mangiato e beve un pompelmo; ne accetto volentieri un sorso e subito una tempesta chimica si scatena nel mio stomaco: brividi, conati di vomito, un malessere diffuso. L’aria marina m’infastidisce e mi rannicchio tra scoglio e scoglio; sento di voler rimettere, lo faccio, e le forze mi abbandonano. Nuccio aveva pescato per tutto il pomeriggio e continuava la sua sfida vincente al buio, ma il mio stato fisico è tale da indurlo a smettere. Accende la torcia, comincia a riporre le sue cose. Da parte mia avrei già voluto trovarmi a casa, sorbire una camomilla calda, ma ci aspettano tre chilometri circa di percorso, col pescato che sostituisce il peso dell’esca. Ci avviamo verso la macchina, passo dopo passo, tra i profumi della notte. Nessuna luce filtra dal buio della pineta e quando finalmente raggiungiamo l’asfalto, ecco il colpo di scena: Nuccio gira e rigira nelle tasche, in ogni possibile custodia, ma delle chiavi non v’è traccia. Avanza l’ipotesi che gli siano potute cadere sugli scogli e l’idea di dover ripercorrere il tragitto (siamo sprovvisti di telefonino) mi fa percepire l’oggettivarsi del terrore e perdere ogni energia residua; poi ha un barlume di memoria: accende la torcia e gira torno torno all’auto, scrutando il terreno. Le chiavi sono lì, posate e dimenticate all’atto di calzare gli stivali. Che sollievo!