Parole, parole, parole 2. La parola dell’anno

In realtà possiamo andare più indietro del 2006, cogliere sul nascere l’ingresso della parola nella nostra lingua, etichetta di un fenomeno tragico tipico di altre società, poi divenuto anche nostro. Si intitolava Le prigioniere del burqa un articolo di Guido Rampoldi del 7 ottobre 2001 («La Repubblica») in cui si parlava di femminicidio prolungato, caratteristico delle società in cui le donne sono avvolte dal burqa che le sottrae alla vista degli altri, rendendole invisibili; ancora lo stesso Rampoldi, Dove le donne sono soltanto l’essere più debole, 5 luglio 2002  («La Repubblica») scriveva: «I codici d’onore di quelle società sono quasi identici nel prevedere il “femminicidio”, l’omicidio della sposa insolvente o ribelle, il delitto d’onore, l’assassinio per punire». Le virgolette su “femminicidio” fanno capire che a quella data la parola appariva nuova, estranea alla nostra cultura. Oggi (purtroppo!) non è più così, è diventata tragicamente nota a tutti. Se la cerco nell’archivio in rete dei quotidiani più diffusi trovo 5.509 risultati per «La Repubblica», 2002 per «Il Corriere della Sera». Un articolo di «Panorama» dell’11 ottobre 2007 ammoniva: «Nel 2007: 57 uccise, 141 ferite, 10.383 vittime di lesioni, 1.805 stuprate. Una violenza che in Italia è emergenza quotidiana. In Europa parlano di femminicidio». La «Gazzetta del Mezzogiorno» del 29 novembre 2023 aggiorna i dati tremendi: «Oltre 100 donne uccise in Italia dall’inizio del 2023 ad oggi».

Qualcuno mi chiede. «Perché inventare una nuova parola per indicare l’orrendo delitto? non basterebbe omicidio, che già esiste e può riferirsi sia all’assassinio di donne che a quello di uomini?». Il dubbio pare legittimo. I vocabolari ci danno la risposta. La voce «femmina viene spiegata cosi: ‘essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo’. Badate all’aggettivo spregiativo, la soluzione dell’enigma lessicale è lì. La tradizione letteraria sembra confermare: anche in autori famosi abbondano prove di misoginia, che al sostantivo femmina accompagnano formule divenute quasi proverbiali. Petrarca: «Femina è cosa mobil per natura; / ond’io so ben ch’un amoroso stato / in cor di donna picciol tempo dura» (anticipando il Duca di Mantova, che nel Rigoletto di Verdi canta: «La donna è mobile / qual piuma al vento»); Tasso: «Femina è cosa garrula e fallace: / vòle e disvòle; è folle uom che sen fida»; ecc.

Torniamo alla domanda: c’è davvero bisogno di femminicidio? Sì, ce n’è bisogno. Omicidio risulta generico, di fronte a forme intollerabili di sopraffazione e di violenza bisogna usare termini che esprimano violenza e sopraffazione. La lingua ha creato «matricidio», «patricidio», «sororicidio», «fratricidio», «uxoricidio», «infanticidio», delitti che sono più di un “semplice” omicidio. È mostruoso uccidere madre, padre, sorella, fratello, un bambino che non può difendersi. È una truffa linguistica (potremmo dire così) la parola maschicidio che alcuni usano per indicare atti violenti nei confronti degli uomini. Un giornale che non voglio nominare, solito a esprimere posizioni retrograde, arriva a titolare: «Sorprendente verità nelle statistiche. Più maschicidi che femminicidi». È una truffa, ripeto. L’uomo viene ucciso per mille motivi, ma non perché va in giro da solo di sera o di notte, perché disubbidisce, perché rifiuta profferte sessuali, come invece accade nel caso dei femminicidi, in cui le donne vengono punite se (nella mente distorta dell’assassino) si sottraggono alla volontà e al potere del marito, del compagno, del padre, della famiglia, di uno sconosciuto. Trucca le carte chi, per motivi ideologici, cerca di parificare anche linguisticamente i due diversi fenomeni.

La parola femminicidio indica un atteggiamento culturale ributtante e oggi in crescita, quello di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari; se la proprietà viene negata o se un altro maschio si avvicina all’oggetto che si ritiene proprio, scatta la violenza cieca. È giusto usare femminicidio, per denunziare la brutalità dell’atto. Bene ha fatto la lingua italiana a mettere in circolo la parola femminicidio; il generico omicidio risulterebbe troppo blando.

                                                                                                                                                                       
[Questo articolo riproduce quello apparso nella rubrica “Parole parole parole” ne “La Gazzetta del  Mezzogiorno” del 12 gennaio 2024]

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